Roma 2015 – Land of Mine: Recensione in Anteprima
Un film sulla vendetta e sul perdono, sulla paura, le speranze e i sogni di un gruppo di ragazzi tedeschi prigionieri di guerra danesi al termine della II° Guerra Mondiale.
2600 uomini, la maggior parte dei quali ragazzi tra i 15 e i 18 anni, vennero costretti a sminare chilometri di costa. Prigionieri impreparati il più delle volte appartenenti al Volkssturm, milizia nazionale istituita da Hitler verso la fine della guerra per arruolare coloro che non erano ancora al servizio delle forze tedesche. I più, neanche a dirlo, giovanissimi. In 5 mesi la metà di loro morì o rimase gravemente ferita, rimuovendo quasi un milione e mezzo di mine. Dopo cinque anni di occupazione nazista l’odio da parte dei danesi nei confronti dei tedeschi aveva raggiunto livelli estremi, tanto dall’andare incontro ad un trattamento al limite dell’inumano.
E’ una pagina di storia ai più sconosciuta, e in Danimarca ancora oggi considerata tabù, quella raccontata con estrema crudezza dal 44enne regista danese Martin Zandvliet in Land of Mine. Un drammatico episodio che in qualche modo ribalta il punto di vista sulla Seconda Guerra Mondiale. Perché sono i tedeschi ad apparire in tutte le proprie debolezze, con i danesi tramutati in mostri dopo un quinquennio di orrore. Da una parte i vincitori, dall’altra gli sconfitti. Nel mezzo il travolgente odio nato, cresciuto ed ora pronto ad esondare al termine di una lunga e sfiancante pagina di terrore.
La terra piena di mine insabbiate del titolo è la Danimarca, tra il 1942 e il 1944 al centro del cosiddetto Vallo Atlantico ideato da Hitler. Un ampio sistema di difesa costiera lungo le coste dell’Europa continentale e la Scandinavia che vide le spiagge del Paese riempirsi di mine. Circa 2 milioni. Ed è da queste coste che Zandvliet riparte, con 14 ragazzi tedeschi finiti sotto il comando del Sergente Leopold Rasmussen. Ad attenderli 3 mesi di bombe, da rintracciare e sminare con la consapevolezza che al minimo errore potrebbero saltare in aria. Accecato dal disprezzo nei confronti dei tedeschi, il Sergente è inizialmente duro come la roccia, privo di pietà e rispetto nei confronti di questi giovani mandati a morire. Fino a quando una prima esplosione finirà per aprirgli occhi e cuore, tornando ad incrociare l’umanità perduta.
Un film sulla vendetta e sul perdono, sulla paura, le speranze e i sogni di un gruppo di ragazzi mandati in guerra da un dittatore disperato che non aspettano altro di poter tornare a casa. Un film sulle conseguenze fisiche, sociali e morali di un confronto bellico tanto devastante, in grado di tramutare vittime in carnefici. Un film intenso, toccante e spettacolare (forse troppo?), anche se brutale nella sua rappresentazione, quello realizzato da Zandvliet. Perché se le caratterizzazioni tendono spesso e volentieri al cliché, soprattutto quelle legate agli inglesi e danesi più ‘intransigenti’ nel considerare i prigionieri tedeschi pura e semplice carne da macello, e alcune scene lasciano perplessi (la partita di calcetto), Land of Mine va ad esplorare quel fascino del male che in ambito Seconda Guerra Mondiale raramente avevamo visto da questa prospettiva. Qui abbiamo infatti un gruppo di ragazzi costretti a fare ‘penitenza’ per le colpe di un’intera nazione. Non soldati tedeschi e neanche nazisti, ma poco più che semplici ragazzini denutriti che piangono e chiamano la mamma di fronte all’esplosione di un ordigno.
E’ davvero possibile provare empatia nei confronti di coloro che diedero vita alla più cupa pagina storica del secolo scorso? Domanda a cui Zandvliet ha risposto, trovando degna risposta attraverso il personaggio interpretato da Roland Møller, sin dalla primissima scena divorato dall’odio nei confronti dei tedeschi eppure in grado di avvicinarsi a loro una volta conosciuti. Un unico raggio di speranza in una terra che li detestava a tal punto dall’aver commesso un crimine di guerra, disumano e vergognoso, tanto da averlo a lungo taciuto e mediaticamente nascosto sotto quella stessa sabbia oggi resa sicura dal sacrificio di oltre 1000 prigionieri.
[rating title=”Voto di Federico” value=”7.5″ layout=”left”]
COMMENTO DI ANTONIO
La Convenzione di Ginevra del 1929 vieta di obbligare i prigionieri di guerra a svolgere lavori forzati o lavori pericolosi. Tuttavia, è evidente come le autorità britanniche e danesi abbiano deliberatamente modificato la formulazione del testo da «prigionieri di guerra» a «persone volontariamente arrese al nemico», al fine di eludere le regole della convenzione. Molti soldati tedeschi, obbligati a disinnescare più di due milioni di mine lungo la costa danese, erano semplici ragazzi – avevano dai 15 ai 18 anni di età.
Guardando un film importante come Land of Mine viene in mente quanto diceva Roger Ebert: «se voglio realmente sapere come sono andate le cose nella Storia, non guardo alcun film». Insomma, il senso è quello. E quante volte il cinema ha trattato maldestramente pagine di Storia di cui, per primo, intendeva svelare certi retroscena. Qui il discorso è diverso; Land of Mine funziona più come memento, optando per un discorso che attiene all’umanità dei personaggi, non alla politica. E la domanda di fondo è: sono stati migliori coloro che hanno costretto dei ragazzini, in gran parte avulsi dalle ragioni per cui si trovavano in guerra, a rischiare la vita a cose fatte, malgrado dunque la guerra fosse già terminata?
La risposta di pancia non è ammessa, perché sennò si viene ancora una volta risucchiati da quel loop che ha già reso arduo qualsivoglia discorso inerente a quel periodo. Il problema qui non sono i nazisti bensì quel sentimento umano-troppo-umano, comprensibile, che è la vendetta. Quei ragazzini tedeschi che dissotterrano mine lungo la costa sono a loro volta vittime di Hitler? Altroché se lo sono, fin qui tutti d’accordo. Ciò detto, si poteva però evitare che il Reich portasse via queste altre vite? E l’onesta risposta di Zandvliet pare essere ancora una volta affermativa.
Coloro che, per mero desiderio di fargliela pagare ad un partito, una nazione, mandarono a morire dei giovani tedeschi si rivelarono complici inconsapevoli di colui che li aveva occupati nel corso dei cinque anni precedenti. E certamente il discorso sfiora il politico, sebbene non nella forma dello sterile schierarsi; perché in guerra vigono regole, sempre che ve ne siano, che sono tutt’altro rispetto a quando si è in pace. Certo, la ferita era aperta e sanguinava ancora, perciò andiamoci piano con le sentenze.
Tuttavia il merito di Land of Mine è proprio questo, ossia nel sollevare la questione senza inutile caciara, ma con buon senso. Un buon senso, se così si può dire, anche artistico, perché il film di Zandvliet trova la chiave giusta per fare di questa vicenda un film che sia al tempo stesso convincente in quanto tale. Ogni volta che uno dei prigionieri si avvicina a una mina ci si pone sul chi va là, e quei semplici, meccanici gesti che comportano il disinnesco rappresentano dei passaggi estremamente efficaci, che funzionano ogni singola volta che li vediamo; quasi che stessimo rischiando noi stessi di saltare in aria.
Ma poi c’è il rapporto tra il sergente Rasmussen e Sebastian, per certi versi centrale, se non altro perché funzionale al dramma che si compie sotto i nostri occhi, senza artifici di chissà quale fatta. Girato praticamente in un lembo di terra, tra una baracca e una spiaggia, dalla location viene estrapolato tanto, tanto da essere richiamata nel titolo. Se non per aver chiara la Storia, perciò, si guardi Land of Mine per lasciarsi destabilizzare dai dilemmi che promuove. Ciascuno registrerà a proprio modo, come sempre, solo che dalla sua il film ha il soffermarsi su temi universali, per questo sempre accessibili.
Land of Mine (Under Sanset, Danimarca, 2015, drammatico) di Martin Zandvliet; con Roland Møller, Louis Hofmann, Joel Basman, Emil Belton, Oskar Belton, Mikkel Boe Følsgaard