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Kreuzweg – Le stazioni della fede: recensione in anteprima

Senza mai scadere nella facile ma involontaria parodia, malgrado a tratti lievemente caricaturale, Kreuzweg – Le stazioni della fede è un ritratto intenso circa la conciliabilità, se non addirittura l’ammissibilità di una fede vissuta a pieno nell’epoca in cui viviamo. Con tanto di quesiti impliciti terribili alla fine

pubblicato 27 Ottobre 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 11:31

Maria (Lea van Acken) medita in cuor suo una cosa ed una soltanto: dare totalmente sé stessa a Dio. Kreuzweg – Le stazioni della fede potrebbe essere letto in diversi modi: per alcuni un’opera che mostra l’incompatibilità della Fede dei nostri padri con il mondo così come si è venuto a configurare; per altri la storia, inevitabilmente sofferta, di una santa, a sua volta impossibile poiché frutto di una Fede incompatibile con il mondo così come si è venuto a configurare. E sono due.

Non ci si gira troppo intorno. La famiglia di Maria, con particolare riferimento alla severa mamma, vive una condizione ai margini, professando e dunque praticando degli insegnamenti che la Chiesa stessa pare avere tralasciato negli ultimi cinquant’anni. Uno degli aspetti più strazianti di Kreuzweg sta proprio in questa corsa in solitaria della famiglia in questione, nel loro isolamento da «noi contro tutti», che entro una certa qual misura è l’esatto contrario di ciò che in cui credono. Certo, il regista è tedesco e di conseguenza si limita a raccontare questa storia secondo le declinazioni dell’ambiente in cui vive e che ha pure frequentato.

La famiglia di Maria appartiene infatti alla Fraternità San Paolo, che ricalca la reale Fraternità Sacerdotale San Pio X, fondata dal vescovo francese Marcel Lefebvre successivamente al Concilio Vaticano II. Alla base di tale fondazione c’è l’esito di un Concilio che fece pronunciare a Lefebvre la famosa frase: «Roma ha perduto la Fede!». Un Concilio al cui il vescovo partecipò in qualità di padre, e che dunque ne firmò i documenti, salvo poi rendersi conto che l’ambiguità di tanti passaggi finì con l’aprire voragini: fu insomma la vittoria della prassi sulla Dottrina. Ad ogni modo, le posizioni di Lefevbre furono giudicate talmente estreme che Giovanni Paolo II gli comminò una storica scomunica.

Molti, più di recente, ricorderanno vicenda di Williamson, accusato di aver negato l’olocausto, episodio che fece non poco scalpore e che valse alla Fraternità tutta l’infamante definizione di antisemita. Questo giusto per inquadrare il contesto, per capire in quale ambiente è cresciuta Maria. Un ambiente che, al di là di facili sentenze, non viene nel film descritto secondo ciò che se ne dice al di fuori, dribblando perciò implicazioni politiche e affini: protagonista indiscussa è la piccola santa, oltre che la madre, che in questo processo di santità ha un ruolo determinante.

Brüggemann opta per una struttura decisamente austera, che un suo indiscutibile merito sia in termini narrativi che a livello artistico ce l’ha ed in notevole misura. Kreuzweg è infatti composto da quattordici inquadrature, di cui dodici fisse (di cui una fissa ma in movimento), dalle quali viene spremuto il più possibile. La prima è senz’altro una delle più notevoli, anche perché è quella che ci consente in qualche modo di inferire la posizione del regista, molto critica nei riguardi di un giovane prete che prepara un gruppo di ragazzini alla Cresima. Didattica dunque, questa primissima inquadratura ci presenta anche Maria, una ragazzina che vuole letteralmente sacrificarsi per il mondo.

Caricaturale sebbene non parodistico, certe scelte tendono ad indebolire una prima parte in cui, più che una famiglia particolarmente devota, ce ne viene descritta una alienata. Eppure anche una simile misura riesce ad avere un suo merito, mostrandoci cosa può comportare una delle tentazioni spirituali più pericolose, ovvero l’eccesso di zelo. Resta che la madre, tutte le volte che pronuncia il termine «moderno», fa involontariamente sorridere, mentre finanche la ragazza francese alla pari che vive temporaneamente presso la famiglia si chiama Bernadette, rimando all’omonima santa di Lourdes.

Ci mette un po’ insomma, ma quando Kreuzweg assume toni più umani, lasciando da parte certe delicate implicazioni sociali, allora sì che ingrana la quarta. Perché è estremamente arduo individuare gli episodi giusti per dimostrare che il cosiddetto ‘integralismo’ (sic) sia un male di per sé, quindi mostrare Maria esitante davanti ad un ragazzino che le si dichiara, o contrariata per la musica «satanica» fatta passare dalla professoressa durante l’ora di Educazione Fisica, rappresentano segmenti discutibili. Episodi che insomma ci dicono poco sullo scontro tra antico e nuovo, tra modernità e pratica religiosa non altrettanto moderna. Un terreno accidentato, che finisce col fare perdere di vista ciò che più conta, ovvero la persona.

Ed infatti l’ultima dolorosa mezz’ora o giù di lì è un crescendo emotivo che riprende pienamente il discorso, rendendoci partecipi di un’agonia che va oltre la morte. Qui sorgono spontaneamente le domande più scomode, perciò le più necessarie. In questo frangente viene fuori ciò che forse Kreuzweg è stato dall’inizio senza però essere abbastanza incisivo, fino a quel punto, per farcelo capire, distratti dal solito trattamento teso a descriverci un ambiente minoritario se non minorato. Proprio lì, quando il film, per così dire, si umanizza, quando Maria e la madre non sono più delle semplici esaltate ma persone in carne ed ossa, il registro cambia completamente. Tutto diventa più credibile. E per fortuna si è ancora in tempo per avvertire quel cazzotto che mette in subbuglio per un po’ la nostra digestione.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Kreuzweg – Le stazioni della fede (Kreuzweg, Germania, 2014) di Dietrich Brüggemann. Con Lea Van Acken, Franziska Weisz, Florian Stetter, Lucie Aron, Moritz Knapp, Klaus Michael Kamp, Hanns Zischler, Birge Schade, Georg Wesch e Ramin Yazdan. Nelle nostre sale da giovedì 29 ottobre.

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