Death in Sarajevo: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016
Un rapido excursus sulla storia dell’ultimo secolo di quella che è stata la ex-Yugoslavia, attraverso un’ora e mezza trascorsa in un quasi fatiscente albergo di Sarajevo. In attesa di capire chi ci resterà secco
C’è fermento in un albergo centrale di Sarajevo, in cui è previsto un meeting con esponenti di tutta Europa. La struttura versa in condizioni critiche: «sembra di essere tornati ai tempi delle Olimpiadi», sostiene eccitato il direttore. Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare più crisi e su più fronti: in giornata ha una scadenza importante con la banca, i dipendenti non vengono pagati da due mesi, l’elettricità da sei; nemmeno il set di posate va più bene, risalente al periodo in cui si tennero le Olimpiadi (quelle invernali del 1984).
Sul tetto dell’albergo si stanno tenendo una serie d’interviste: professori di Storia, di Design, tutti a discutere su cosa significhi per la Serbia quell’incontro tra i potenti d’Europa: «a Sarajevo l’Europa è morta nel ’14», sbotta uno degli intervistati. E giù di lunghe dissertazioni sulla guerra in Yugoslavia negli anni ’90, circa la complessità di tenere insieme un popolo composto da genti diverse. Finché non è il turno di Gavrilo Princip, omonimo dell’assassino di Francesco Ferdinando; posizione impopolare la sua, che non ritiene un crimine aver ucciso l’invasore, perché a suo dire questo era l’Impero austro-ungarico.
Nel frattempo il leader della protesta che il personale intende mettere in atto nel pomeriggio viene malmenato dal proprietario del night club che si trova sotto la struttura; un tizio losco che se la intende col direttore. Lamija, diligente lavoratrice tuttofare, ha trascorso la notte col cuoco, il quale ora dice di amarla. La madre di Lamija lava e stira i vestiti degli ospiti lì da trent’anni, ma su questa cosa del manifestare hanno pareri discordanti. Insomma, è un delirio.
Tanovic rispetta l’unità di tempo reale sovrapponendola a quella del film, che è di 85 minuti. A suo modo il regista serbo costruisce una scatola simile a quella di Skolimovski con 11 minutes, spalmandola in quasi un’ora e mezza e preoccupandosi di più riguardo a quello che c’è dentro anziché arricchire la confezione. Il risultato è una commedia nera molto caustica, in linea col tenore di certo cinema di quell’area. Approntando un discorso sulla storia della regione, da oltre un secolo tormentata; riallacciandosi però all’attualità, che non può che risentire delle troppe questioni rimaste irrisolte. Secondo il professore di Storia è meglio così, dato che un simile stato d’incertezza è connaturato a quella cultura, aiutandola a restare viva.
Ma dove Death in Sarajevo dimostra di essere vero cinema è nel suo illustrarci lo stato di deleteria immobilità attraverso il ritmo di questa storia, nella quale gli eventi si avvicendano lentamente e tutti li subiscono con un’indolenza fastidiosa. È proprio un modo di approcciarsi alle cose, una lente attraverso cui filtrare la realtà, disciplina in cui il medium cinematografico, ma il costruire immagini in generale oserei dire, riesce meglio di chiunque altro. A patto di saperlo utilizzare, s’intende.
Infarcito di alcune chicche interessanti, come il siparietto tra marito e moglie per un divano. In generale c’è quella cappa di dissoluzione, quasi si stesse riproponendo un nuovo fin de siècle come a cavallo tra ‘800 e ‘900. Deriva di cui Tanovic pare avere percezione, e di conseguenza i suoi personaggi, a cui non resta che aspettare che la nave arrivi a destinazione, come il direttore, che ad un certo punto molla la presa e si lascia andare a palpate moleste, per poi stravaccarsi sulla sedia e farsi un bicchierino fino a che l’inevitabile non si sia compiuto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
Death in Sarajevo (Smrt u Sarajevu, Francia/Bosnia ed Erzegovina, 2016) di Danis Tanović. Con Jacques Weber, Snežana Vidović, Izudin Bajrović, Vedrana Seksan e Muhamed Hadžović.