Soy Nero: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016
Rafi Pitts non intende prendere troppo di petto la questione degli immigrati messicani arruolati nell’esercito americano, ma dal particolare di una singola storia fatica a trarre abbastanza, stazionando a metà strada tra documentario e finzione
Nero dice di essere americano. Ha vissuto a Los Angeles, ma ora si trova in Messico e per tornare negli USA l’unica possibilità che ha è quella di varcare illegalmente il confine. Una volta lì, ammesso che ci riesca, il piano è chiaro: arruolarsi nell’esercito e guadagnarsi la cittadinanza grazie a una legge che lo prevede. Il tutto filtrato mediante un approccio vagamente esistenzialista, perciò interlocutorio, che purtroppo ad un certo punto sfugge di mano.
Rafi Pitts tocca un tema estremamente interessante, dando voce a tutti quei messicani che, una volta aver combattuto in Medio Oriente, sono stati rimpatriati. Nero Maldonado è uno di questi, e la sua storia non ha nulla di particolarmente speciale. Scelta voluta, quella di soffermarsi sull’ordinario, che nel caso di un immigrante messicano è comunque qualcosa sopra le righe.
Nero va a trovare il fratello Jesus una volta a Los Angeles. L’indirizzo di cui dispone porta a un garage dove fa il meccanico ma a quanto pare da lì è stato cacciato via. La donna che lavora lì gli allunga un nuovo indirizzo: Beverly Hills. A quanto pare il fratello di Nero si è sistemato bene, ma dopo una giornata di stupore e meraviglia si torna coi piedi per terra.
Soy Nero non è film che cerca d’indorare la pillola o irretire nessuno, andando asciutto al sodo; forse in modo anche troppo asciutto. La sua vicenda ci viene riportata come fosse una cronaca, rispettando il racconto in tre atti, ma lavorando di sottrazione. A togliere a togliere, però, si corre il rischio di far rimanere poco, sacrificando alla chiarezza tutto ciò che avrebbe reso non dico coinvolgente ma anche solo accattivante questo film. Che procede quasi per inerzia, mostrando in maniera didascalica le peripezie di questo giovane che ha il mito degli States ed un solo sogno: farne parte.
La premessa è difatti oltremodo interessante, senza contare la sua rilevanza, perché quanti sapevano del “Dream Act”, ovvero di questa misura legislativa che consente di ottenere una green card in cambio del servizio militare prestato? Solo che i vari spunti, quasi tutti degni di nota, non riescono a reggere un film intero, per lo più di due ore, quando in poco più della metà del tempo con ogni probabilità si poteva arrivare allo stesso punto. A tal punto ogni singolo episodio appare stirato, troppo diluito, impressione che non se ne va più via dal secondo atto in poi, quando Nero arriva a Los Angeles.
Scivola così Soy Nero, andando giù a fatica, compromettendo almeno in parte delle intuizioni felici quantunque già sentite e risentite (non si contano le volte in cui abbiamo visto un immigrato fare il brillante con un amico o un parente che lo viene a trovare, salvo poi scoprire che nessuno dei suoi sogni si è ancora realizzato né, con ogni probabilità, si realizzerà mai). Nero resta uno tra tanti, il che, in funzione del fenomeno che si voleva evocare, avrà un suo perché; non fosse che questo limbo tra documentarismo (per un’opera che non è un documentario) e finzione rema contro la resa di una storia che meritava senz’altro di essere proposta in maniera più incisiva.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
Soy Nero (Germania/Francia/Messico, 2016) di Rafi Pitts. Con Johnny Ortiz, Rory Cochrane, Aml Ameen, Darrell Britt-Gibson e Michael Harney.