7 Days in Havana: Recensione in Anteprima
In anteprima su Cineblog la recensione di 7 Days in Havana, diretto da Benicio Del Toro, Pablo Trapero, Julio Médem, Elia Suleiman, Gaspar Noé, Juan Carlos Tabio e Laurent Cantet
Sette giorni in Havana. Gente che parte, gente che resta. C’è chi non può fare a meno di quella terra, vissuta in piena a amorevole simbiosi. Da alcuni traspare l’abitudine alla vita in un luogo i cui legami si indeboliscono sempre più. Altri, invece, non riusciresti davvero ad immaginarli al di fuori di quel contesto. E’ così in ogni parte del mondo, suppongo. Ciò che negli occhi di un uomo è meraviglia, negli occhi di un altro può benissimo essere desolazione.
In fondo questo ci racconta 7 Days in Havana. Un film girato, per così dire, a quattordici mani, due per giorno. Si parte il lunedì e si finisce alla domenica. Nessuna di queste storie s’intreccia, eppure più di una maschera in questo carnevale assolato si presenta in più occasioni. Talvolta spinto, talvolta irriverente, tragico, divertente, sognante. Va percepita come una cartolina questa pellicola, perché in fin dei conti di questo si tratta.
Sette episodi slegati l’uno dall’altro, che tentano di raccontarci le giornate di La Havana, partendo però dal basso. C’è la capitale cubana semi-patinata, ma c’è anche e soprattutto quella delle zone più disagiate, dove alla povertà si mescola il dramma ma anche la commedia.
Ci pare che il mezzo più adatto per scardinare la porta che ci separa dal contenuto di questo involucro sia quello di procedere per tematiche. La nostalgia per esempio. Chi l’ha detto che si possa soffrirne solo quando oggetto di tale stato d’animo è qualcosa che non si ha più, un posto in cui non ci si trova più, una persona che abbiamo irrimediabilmente perduto? Si può trascorrere una vita intera con la stessa persona eppure avvertire quel nodo alla gola al pensiero di come sarebbe stato bello viverci in un altro modo… come un tempo, magari.
A tutto ciò, forse, contribuisce quel clima che traspare dallo schermo. E’ come se il tempo si fosse fermato. Se il tutto fosse stato girato in bianco e nero, probabilmente non ci saremmo nemmeno accorti che quelle immagini provengono dai nostri giorni. Sarebbero benissimo potuti essere gli anni ’50, o forse ’60, chi lo sa? E questo senza nemmeno aver mai messo piede a Cuba. Tutti i personaggi che ruotano attorno alle vicende del film vivono, in qualche misura, nostalgicamente.
Prendete Elia Suleiman, protagonista dell’episodio da lui stesso diretto (Diary of a beginner, il migliore). Il suo è un episodio che vive pressoché solo di silenzi. Il suo personaggio appare costantemente spaesato, in cerca di qualcosa che sembra non conoscere nemmeno. In hotel non ricorda mai dove si trovi la propria camera; per le via della città vaga contemplando persone che a loro volta contemplano qualcos’altro, come se attraverso i loro occhi volesse comprendere ciò che a lui sfugge; addirittura all’ambasciata palestinese riesce a sentirsi un estraneo. Eppure proprio certi scorci di Cuba dovrebbero ricordargli la sua amata Palestina, luogo e tema a lui tanto caro. E forse sono proprio certe analogie ad estraniarlo dal contesto in cui si trova, a non permettergli di capire quale sia l’origine di quel suo stato poeticamente distratto. Il tutto lavorato col tono che gli appartiene, ossia quello della tragicommedia grottesca: lunghe inquadrature fisse, come se il suo cinema procedesse per singole immagini, come un album di fotografie. Tra tutti, ci pare che il suo episodio incarni meglio lo spirito di questa operazione.
C’è l’amore… e come potrebbe essere diversamente?! Da quello profano della dolce Cecilia, che deve scegliere tra le proprie aspirazioni ed il compagno di una vita (l’episodio è La tentaciòn de Cecilia), a quello sacro dell’anziana Martha (La Fuente), che chiude la settimana cubana con un voto fatto alla Vergine Santissima: organizzare per Lei la festa più bella che si sia mai vista da quelle parti, in meno di un giorno.
E che dire di un altro leitmotiv, rappresentato dall’alienazione? Lo si può ricollegare alla prima chiave, ossia la nostalgia. Oltre al già citato Suleiman, s’impone la menzione di Emir Kusturica, che nell’episodio Jam Session interpreta un ruolo assolutamente scomposto e privo di coordinate. Venuto a La Havana per ricevere un premio, sin da subito si perde nei meandri di quel contesto onirico. Non a caso la sua entrata in scena avviene all’interno di un gabinetto pubblico, sbronzo e totalmente sconnesso da tutto ciò che lo circonda. Ma in fondo anche la ragazzina protagonista di Ritual, diretto da Gaspar Noé (il peggiore dei sette) si ritrova a sua volta “vittima” di una situazione a cui si sottopone spinta più da una sorta di dovere implicito che da una reale presa di coscienza. Beccata in flagrante dopo una notte passata con un’amica, i genitori la conducono da un santone per “purificarla”, mostrandoci una parte di quella realtà lungi dall’essere stata inghiottita dalla modernità incalzante. Una vicenda surreale, questa, che si trascina stancamente da un gesto ai nostri occhi insensato a un altro.
I due che non abbiamo ancora citato, El Yuma e Dulce Amargo, risentono più o meno delle stesse questioni. Il primo, diretto da Benicio del Toro, avviene di lunedì, e non a caso. Come noi, anche il suo protagonista è nuovo da quelle parti. Un newyorkese gettato nella mischia e che avverte un certo disagio proprio perché avulso dall’ambiente. E’ uno Yuma. Che pur non venendo a capo dell’etimologia di tale definizione, sappiamo essere un appellativo rivolto agli americani. Un ubriacone improvvisa una simpatica origine (you my friend), qualcun altro la butta sul cinema e cita Quel treno per Yuma (“ma non quello del 2007. Quello vero… quello del 1957. Ricordo che prima di allora qui si vedevano solo quei pesanti film russi; poi arrivò il film con Glenn Ford e qualcosa cambiò“, dice un barista).
Il sabato, invece, è tempo di congedo. Tempo di autocitazionismo (“se solo avessi indossato questa parrucca nel corto di Del Toro…“), tempo di allegria sfumata. C’è poco da festeggiare, perché la settimana si sta concludendo, e stavolta potrebbe essere per sempre. Un famiglia al centro della storia, come ce ne sono tante. Interrotte. Cose che succedono.
Ed anche quell’ultima festa si consuma, tutti tornano alle proprie case e la luce del giorno diventa un lontano ricordo. Quel che resta sono immagini sparse, tutt’altro che amalgamate e forse per questo cariche di un particolare fascino. Forse a Cuba non ci siamo mai stati, e riguardo a questa terra ne sappiamo quanto prima se non ancora meno. Tuttavia, lasciamo la sala domandandoci cos’è questa strana forza che ci attrae. La butto lì. Forse anche noi siamo stati colpiti da quella malinconia di lasciare un posto tanto sconosciuto quanto familiare? Le luci della sala che si accendono sono po’ come svegliarsi e rendersi conto che era tutto un sogno. Bello o brutto, non importa. Ci sei stato ed in qualche modo te lo porterai dentro, anche se per poco.
Voto di Antonio: 7
7 Days in Havana (7 Dias in Habana, Francia-Spagna, 2012). Di Benicio Del Toro, Pablo Trapero, Julio Médem, Elia Suleiman, Gaspar Noé, Juan Carlos Tabio e Laurent Cantet. Qui trovate il trailer italiano. Nelle nostre sale a partire da giorno 8 Giugno.