Venezia 2016, Jackie: recensione del film di Pablo Larraín
Festival di Venezia 2016: Pablo Larrain sceglie gli USA per il suo settimo lungometraggio, un insolito biopic incentrato sui tre tre giorni successivi all’assassino di JFK, visto attraverso gli occhi della moglie Jacqueline
Camelot. È il leitmotiv con cui si chiude Jackie di Pablo Larrain, primo film del regista cileno negli USA. Camelot quale rimando ad un mondo in cui a regnare sono gli ideali, in cui non c’è bisogno d’inseguire una gloria fugace perché lì tutto è gloria. L’abbraccio su cui il film si chiude dice tutto quello che c’è da dire, lega un nodo alla gola che ci accompagnerà ogni qualvolta rievocheremo Jackie: quest’ultima e suo marito di spalle, alla Casa Bianca, mentre ballano un lento. Tempi felici, che sembrava dovessero durate per sempre anche se nessuno crede davvero a certe cose.
Larrain, come sempre succede, fugge la retorica, che non è proprio nelle sue corde; la sua Jacqueline (Natalie Portman) è sì la first lady, moglie e donna che nel giro di poche ore ha letteralmente perso quasi tutto. Ma sarebbe un errore credere che con quel “tutto” ci si riferisca al ruolo istituzionale, o finanche al matrimonio: Jackie in quelle ore ha seriamente rischiato di perdere sé stessa. Lo dice chiaramente al prete che tenta una sorta di confessione allargata: «padre, ogni giorno prego di morire». Il regista cileno è quello adatto a raccontare questa storia, che in mano a tanti altri, anche navigati, si sarebbe risolta nell’ennesimo polpettone patinato, tanto impeccabile quanto vuoto. Ed invece questo Jackie un’anima ce l’ha, ed è pure bella.
Un giornalista va a trovare l’ex-first lady per un’intervista destinata a fare il giro del mondo. Sarà la sua di versione, pacata e tutt’altro che controversa, di quanto accaduto quel giorno a Dallas. Ma soprattutto di ciò che ne è seguito. Larrain si concentra sui tre giorni successivi, ancora una volta disinteressandosi di alcun rigore cronologico per tuffarsi a capofitto su una progressione di tipo emozionale. Il suo è un racconto che procede per sensazioni, non introspettivo, attenzione, bensì evocativo: la musica detta il tempo, il montaggio segue in accordo. Ciò che deve emergere è la complessità di una situazione che per la diretta interessata vira vertiginosamente in tragedia.
La Portman regge benissimo il peso di un ruolo che presentava i suoi ostacoli. Il titolo non è casuale, infatti, dato che tutto ruota attorno a lei; la macchina da presa le si posa addosso costantemente con grazia e discrezione, pur non lesinando primi piani stretti. La segue per restituircela quanto più integra possibile, nella sua debolezza e fragilità, che diventano, come sovente accade, le componenti mediante le quali riusciamo a scorgere con maggiore chiarezza il personaggio. Jackie è peraltro film che di americano ha proprio il suo soffermarsi su una prova di resistenza inizialmente al di là delle forze di chi la affronta, salvo poi venirne a capo un po’ per forza di volontà un po’ per quel senso di responsabilità tanto celebrato in certi circoli, oltre che iscritto nel DNA culturale.
La vediamo, Jackie, vagare per le sfarzose stanze di un’abitazione spettrale, popolata da fantasmi che sbattono in faccia alla donna la sua radicale solitudine, il fatto che per questa sfida non possa avvalersi dell’ausilio di nessuno. Va contestualizzato il periodo, l’ambiente: sarà anche la moglie del presidente degli Stati Uniti, ma Jacqueline è in tutto e per tutto anche figlia del proprio tempo; moglie e madre di famiglia, che fino a qualche giorno prima doveva occuparsi di rendere la Casa Bianca all’altezza della Storia, mentre ora la sua esistenza rischia di rimanere miseramente senza alcuno scopo. La memoria come espressione di un passaggio, segno tangibile della propria presenza nel mondo. Bob Kennedy ne è quasi inopportunamente ossessionato: il cadavere del fratello è ancora caldo, la cognata devastata, tuttavia non resiste alla tentazione di manifestare la propria amarezza «per tutto ciò che di buono avremmo potuto fare».
Perché il vero conflitto, ciò che a Jackie non dà pace è esattamente questo, ossia il doversi confrontare con due mostri contemporaneamente: non ha tempo per rielaborare il lutto in quanto non c’è modo di rinviare l’appuntamento con la Storia, che preme affinché lei si comporti come ci si aspetti da colei che, a partire dal giorno 1 del mandato del marito, non apparteneva più a sé stessa, bensì al popolo americano, di cui è automaticamente divenuta madre, amica, sorella. Peccato non ci sia scuola che prepari a dovere per certe cose; e se anche ci fosse, la sproporzione tra la teoria e la pratica la renderebbero per lo più superflua.
Pablo Larrain si reinventa per l’ennesima volta, come ebbi modo di sottolineare già in sede di recensione di Neruda. Con Jackie firma un nuovo tassello della sua sempre più preziosa filmografia, confermando peraltro la propria inclinazione a sapere rileggere pagine di Storia, stavolta anche al di là dei confini del proprio Paese. Capisci che le cose andranno per il verso giusto sin dall’inizio, quando le note inquietanti di Mica Levi sembrano introdurci un horror; perché stirando un po’ il concetto è esattamente di questo che si tratta. Bisogna tornare a Post Mortem per cogliere pulsioni analoghe, per avvertire certe angoscianti sensazioni.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”8.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”10″ layout=”left”]
Jackie (USA/Cile, 2016) di Pablo Larrain. Con Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Max Casella, Beth Grant, Billy Crudup, Sunnie Pelant, Corey Johnson e Caspar Phillipson. Concorso