Barriere di Denzel Washington: Recensione in Anteprima
Due straordinari Denzel Washington e Viola Davis protagonisti dell’adattamento cinematografico di Fences, pièce di August Wilson nel 1983 vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia.
Detto, fatto grazie proprio a Denzel Washington, che dopo aver incantato la critica e fatto incetta di premi teatrali ha co-prodotto la pellicola insieme a Scott Rudin, rimanendo clamorosamente fedele al revival del 2010. Protagonista lo stesso regista, chiamato ad indossare gli sporchi abiti da lavoro di un uomo che, nel pieno degli anni ’50, mantiene la propria famiglia raccogliendo l’immondizia, dopo essere stato respinto dalla Major League perché nero. Costretto a raccattare la sporcizia dei bianchi, Troy Maxson sopporta l’intera settimana in attesa del venerdì sera, momento in cui può finalmente tornare a casa dall’amata moglie e sbronzarsi con l’amico di sempre, primo di passare il fine settimana a costruire la staccionata di casa insieme al figlio Lyon, che come lui sogna di diventare un giocatore di baseball. All’interno di quelle povere mura, però, prendono forza problemi familiari che si fanno sempre più ingombranti, mentre all’esterno il mondo cambia, accogliendo finalmente quei cambiamenti sociali che proprio Troy, nel corso della propria giovinezza, non ha mai potuto cavalcare.
Uno sguardo sull’America di Dwight D. Eisenhower, ancora profondamente razzista ma ad un passo da una serie di cambiamenti epocali. Un Paese intero racchiuso in una piccola casa di periferia, povera ma piena d’apparente felicità, anche se minata da rancori e bugie. Troy Maxson e Rose Maxson sono due protagonisti che si amano profondamente, se non fosse che lui, zavorrato da un passato pregno di dolore che ne ha forgiato il burbero carattere, sopporti con fatica questa esistenza tutta casa, lavoro e responsabilità familiare. Trainato da uno tsunami di parole che inondano lo spettatore (sarà arduo il doppiaggio italiano), Barriere vive sulla spalle di due attori giganteschi, la cui provata alchimia era già stata dimostrata nel 2010, a teatro. Washington, mai tanto bravo persino di fronte ad un personaggio così odioso, si trascina appesantito, invecchiato e affaticato in una Pittsburgh che vediamo solo a sprazzi. L’intero film, infatti, si svolge all’interno di queste quattro mura che vedono come donna del focolare, madre affettuosa e moglie premurosa, un’immensa Viola Davis. E’ un piacere per gli occhi assistere a questo incontro/scontro cinematografico, perché i due attori concedono stupore, suscitando emozioni che spaziano dall’odio più profondo all’affetto più sentito.
Washington, marchiato a vita da un padre violento, costretto a fuggire di casa a soli 14 anni e a delinquere dopo essere diventato padre, scopre la passione per il baseball solo una volta uscito di galera. Ha già 30 anni, è un fenomeno ma è troppo vecchio, per entrare nella Major League. O forse è semplicemente nero. Questa presunta verità segna la sua apparente rinascita, come marito di Rose e padre di Lyon, di fatto privato di quell’amore paterno che lo stesso Troy non aveva mai toccato con mano. Un uomo che ha superato i 50 anni ed ha persino ottenuto un’insperata promozione, eppure inappagato, anche perché divorato dai sensi di colpa nei confronti del fratello minore, tornato dalla Guerra con il cranio sfondato e rimasto tutt’altro che intatto dal punto di vista cerebrale. Un incidente che ha fruttato 3000 dollari al povero Gabriel, usati da Troy per costruirsi casa. Denzel incarna spaventosamente tutti i lineamenti di un uomo che potremmo quasi definire ‘osceno’, perché difficilmente digeribile lungo l’arco dell’intera pellicola, esplicitamente divisa in tre atti. A doverlo sopportare una Davis che finalmente vola verso il suo primo Oscar, segnato da un titolo cinematografico nella sua rappresentazione ma teatrale nella sostanza. Ed è qui che entrano in scena i limiti di un adattamento forse persino troppo fedele all’opera originale, in quanto palco e grande schermo da sempre vivono di tempi e suggestioni differenti. Dilatato nella lunghezza, decisamente eccessiva, Barriere si fa nel suo procedere verboso, anche perché mai esaltato da una regia basica totalmente prona nei confronti della sceneggiatura e dei suoi sublimi interpreti.
Recinti, quelli del titolo, con cui proteggere la propria famiglia, sia dal mondo esterno che da quello interno, non a caso da ‘circondare’ prima che possa implodere e fuggire via. Dai propri limiti, dalle proprie colpe, dai propri sbagli, troppo spesso stupidamente reiterati, e dai propri diavoli interiori, da scacciare prima che si aprano una volta per tutte le porte del Paradiso. Fortemente americano nel rappresentare un preciso spaccato sociale e temporale, plasticamente esplicitato dalla metafora del baseball, Fences paga la ridondanza di certi temi, l’esagerata lunghezza, la limitante struttura della cornice teatrale e la pesantezza di un protagonista che nulla fa per farsi piacere, rimanendo comunque scolpito all’interno di questa stagione cinematografica grazie a due delle migliori prove recitative degli ultimi anni.
[rating title=”Voto di Federico” value=”6.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6.5″ layout=”left”]
Barriere (Fences, Usa, drammatico, 2016) di Denzel Washington; con Denzel Washington, Viola Davis, Brandon Jyrome Jones, Mykelti Williamson, Russell Hornsby, Stephen Henderson, Jovan Adepo, Saniyya Sidney, Dontez James, Mark Falvo, Kelly Moran – uscita giovedì 23 febbraio 2017.