Berlino 2017: Ana, mon amour – recensione del film di Călin Peter Netzer
Il lungo e tortuoso percorso insieme di Toma e Ana attraverso una seduta psicoanalitica. Netzer sa come rendere interessante un’ordinaria ancorché struggente storia d’amore
Toma e Ana discutono di Nietzsche ed altro presso il dormitorio dell’università. Gli argomenti sono alti ma nell’aria, vuoi anche per i rumori di sottofondo che provengono da una stanza in cui due persone si stanno divertendo, si avverte una tensione sessuale che si taglia col coltello; finché Ana non risente di quello che ha tutta l’aria di essere un attacco di panico… una cosa tira l’altra e i due si avvicinano un po’ troppo. È questo l’inizio della storia tra i due, di cui il rumeno Călin Peter Netzer ripercorre i momenti più significativi nel corso di oltre dieci anni.
Netzer a Berlino aveva portato di recente Child’s Pose, con il quale si è aggiudicato l’Orso d’Oro. Con questo suo nuovo lavoro siamo di nuovo da quelle parti, perché Ana, Mon Amour rientra certamente tra i film che svettano nell’ambito del Concorso. Il suo è quasi un documentario, per intensità non meno che per stile, che se non fosse per l’uniformità della fotografia si potrebbe addirittura scambiare per immagini di repertorio. Tutto fa perno sulla relazione tra Toma e Ana, piluccando da vari momenti relativi alla loro storia, rievocati in maniera sparsa; lo sviluppo infatti non è cronologico, bensì per argomento: Netzer si appropria infatti della struttura del giallo mescolandola in chiave neo-noir.
D’altra parte il film questo è, ossia un noir (anti)romantico, sentimentale, che senza quasi farcene accorgere mischia più generi. Operazione molto fine, analoga per certi versi a quella di un altro film in Concorso alla Berlinale di quest’anno, ossia Mr. Long; rispetto al film di Sabu, qui il regista rumeno può contare su un filo rosso più netto, che sta nel già menzionato rapporto tra i due protagonisti. Dove però Netzer eccelle è nella gestione dell’ambiguità, riuscendo sul serio a non prendere posizione, impedendo anche allo spettatore di patteggiare con tutto il cuore per uno o per l’altro qualora volesse al contempo essere onesto.
Quella tra Ana e Toma è una storia bellissima, viscerale, che, come tutte le storie d’amore degne di tale nome contiene tutto e il suo contrario. Per capirlo basta una scena: Ana, che soffre di una sorta di depressione cronica, assume una dose eccessiva di farmaci; quando Toma rientra la trova distesa sul letto, incosciente, parzialmente coperta dalla sue stesse feci. Il ragazzo allora si sveste, indossa un accappatoio e porta la sua ragazza nelle docce femminili per pulirla. Ma per comprendere l’entità di quanto Toma sta facendo bisogna tornare indietro di non poche scene, ma anche avanti, quando, a saper guardare, scopriamo che lo stesso Toma è molto schizzinoso nei bagni altrui, all’interno dei quali si muove con estrema cautela, cercando di non toccare nulla.
Insomma, buona parte del film ricostruisce questo continuo accudimento da parte del ragazzo nei confronti della sua amata; la sofferenza di quest’ultima è condivisa, per quanto possibile, con un’intensità analoga da Toma, che nemmeno per un istante sembra voler tornare indietro, malgrado i sacrifici e le rinunce che l’amore per Ana comportino. Netzer, che le storie evidentemente sa come raccontarle, ci manovra (non si abbia sempre paura di questo verbo) sino quasi alla fine quasi precludendoci alcuna simpatia/empatia con Ana; lei è la vittima che muta, suo malgrado, in carnefice, che consuma il suo uomo senza nemmeno accorgersene. Qualcosa ad un certo punto però cambia, al solito, senza strilli e urla. Ana, dopo anni, comincia a stare meglio ed allora comincia timidamente ad affacciarsi anche la sua di verità, alla quale non abbiamo avuto accesso sino a quel momento poiché è come se la donna fosse stata per tutto il tempo sotto un incantesimo.
Ce ne vuole per non sembrare cinici, egoisti, delle pessime persone insomma, quando alla persona che si è occupata di te quando non avevi nessun altro al mondo che l’avrebbe fatto al posto suo, a fronte di un’esternazione del tipo: «tu non volevi che io stessi meglio, perché la mia condizione ti ha permesso di sentirti migliore». Lì per lì si rimane esterrefatti e l’indignazione di Toma è anche la nostra. Proseguendo lungo quello stesso discorso, però, ecco come Ana in poche frasi rimette tutto in discussione, tanto che alla fine le si concedono attenuanti che odorano di giustificazioni se non addirittura di valide motivazioni. Serve però aver trascorso del tempo con loro, osservarli nei momenti chiave, quando fanno l’amore così come quando lui cerca invano di tranquillizzare lei a seguito dell’ennesimo, invalidante attacco.
Seduto sul lettino di uno psicoanalista, Toma tenta a sua volta di ricostruire l’intera vicenda, con un distacco se possibile analogo al nostro che incrociamo questi personaggi per la prima volta. L’epilogo onirico e surreale suggella benissimo questa lunga seduta in cui Toma fa tutto da sé, eppure non consegue una consapevolezza tale da dargli pace; «ci vediamo giovedì prossimo», così il dottore congeda il suo paziente, che sulla porta dello studio pone ancora quesiti come fosse un fiume in piena. L’amore è un mistero, ed anche solo tentare di spiegarlo, analizzarlo, può rivelarsi estremamente pericoloso; ci sono volte in cui però non ci resta che scegliere di quale morte vogliamo morire.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]
Ana, mon amour (Romania, 2017) di Cãlin Peter Netzer. Con Mircea Postelnicu, Diana Cavallioti, Adrian Titieni, Vlad Ivanov, Igor Caras-Romanov, Tania Popa e Ionut Caras.