Ghost in the Shell: recensione in anteprima
Un mischione dall’impianto visivo notevole che sa più di omaggio che di scimmiottamento. Limitato rispetto alla fonte, che quantomeno però non viene svilita in maniera maramaldesca
Serve un po’ di sano realismo. Eventuali critiche a questo live action, o quantomeno certe riserve, avevano un senso all’annuncio o giù di lì. Quali? Beh, per esempio quelle inerenti all’ipotizzabile svilimento delle enormi implicazioni derivanti dalla fonte originale, dal fatto che ci si sarebbe dovuti limitare alquanto nel filtrare tematiche tutt’altro che immediate nei manga, negli anime e nelle serie TV di Ghost in the Shell. Il lavoro di Rupert Sanders non poteva quindi non tenere conto di tali istanze, che vedono un film del genere come a priori una forma di semplificazione rispetto alla complessità del tema principe: cos’è l’anima?
Ma già questa domanda è mal posta. Ghost in the Shell, e ce ne accorgiamo in particolar modo con quel progetto capitale che sono le due serie televisive, ovvero le due parti di Stand Alone Complex, procede sempre in negativo: come ravvisa a ragion veduta Alfonso Martone, ci s’industria a descrivere cosa sia il ghost andando per esclusione, cioè soffermandosi su cosa non è. Non solo. Il concetto di ghost e anima non sembra essere sempre ed inevitabilmente sovrapponibile, aspetto che rende l’argomentare ancora più ambiguo e sfumato. Può tutto ciò confluire nell’ambito di un’operazione da 120 milioni di dollari, pensato essenzialmente per un pubblico occidentale (o occidentalizzato, come buona parte di quello cinese)?
La protagonista è una ragazza di cui è rimasto solo il cervello, mentre tutto il resto è stato ricostruito in laboratorio. Il suo nome è Mira Killian (Scarlett Johansson) ma tutti la chiamano Maggiore, dato che è la punta di diamante della Sezione 9, un gruppo che risponde al Governo ma che opera nell’ombra. Il Maggiore ed i suoi colleghi entrano in azione dal momento in cui si registrano strani omicidi, in concomitanza con l’ancora più strano atteggiamento di certi sintetici, i quali non rispondono più in maniera “prevedibile”: che abbiano sviluppato una sorta di coscienza? La realtà è più complessa di così e conduce ad un misterioso hacker. La vicenda del film è volta a scoprire chi sia e cosa voglia quest’anonimo che si muove con così tanta disinvoltura nella rete.
Il mondo di Ghost in the Shell è un mondo connesso all’inverosimile: sono sempre meno le persone che non abbiano fatto ricorso ad un qualsiasi tipo di potenziamento artificiale, rendendoli esposti come lo è oggi uno qualunque tra i dispositivi di ultima generazione di cui disponiamo. Va detto che quello di Sanders è sostanzialmente un mischione del primo film del ’95 e del ben più esoterico secondo lungometraggio, Innocence, uscito nel 2004; vi sono scene prese paro paro da lì, in alcuni casi ribaltate, come quella che ci mostra come mai Batou abbia quelle lenti minuscole al posto degli occhi, riprendendo pressoché esattamente quanto avviene proprio in Innocence, dove all’inizio è Batou a salvare Togusa da un’esplosione, mentre qui vengono invertite le parti ed il “salvato” è proprio Batou, non da Togusa ma dal Maggiore.
È piuttosto interessante il corto circuito creato in questo come in altri casi: Sanders gioca velatamente coi ricordi che abbiamo del film cavalcando un tema che è centrale nel lavoro di Mamoru Oshii del 2004, ossia la plausibilità di ciò che vediamo e perciò ricordiamo. Come in quel passaggio in cui un netturbino è convinto di avere qualcuno, una figlia e una moglie, che lo stanno aspettando a casa, mentre però, quando gli viene mostrata una foto che lo ritrae, riconosce non sé stesso ma questa fantomatica figlia. Dove sta la verità? Qualcosa di analogo accade a Togusa, sempre in Innocence, che lo spettatore sperimenta per lo più dalla prospettiva di Batou, il quale si domanda se sia vero che il suo collega abbia una famiglia o se sia solo una finzione alla quale crede magari pure in buona fede.
L’unica cosa certa è che qualcuno, a queste condizioni, ha la possibilità di smanettare coi ricordi di chiunque, togliendo, aggiungendo o modificando la qualsiasi, con la tremenda confusione che ne deriva. Mira, la protagonista del live action, deve in fondo fare la stessa cosa, ovvero dare forma a certe estemporanee visioni dal retrogusto di déjà vu: solo così può risolvere il mistero che si cela dietro l’intera vicenda e che ha a che vedere con la propria identità. In questo senso, proprio a fronte di tale risoluzione, si sgonfieranno ulteriormente le già deboli critiche in capo alla scelta della Johansson, per via di una trovata forse non così consapevole come ci piacerebbe credere ma che senza dubbio alcuno ha il suo perché, quantunque paraculescamente.
Colpisce poi come, al netto di un immaginario urbano rimasto fermo a Blade Runner (fenomeno che riguarda la fantascienza al cinema in generale, salvo rari casi), Sanders riesca a confezionare un prodotto dall’impianto visivo credibile ed appagante, senza sfociare in un eccesso di spettacolarizzazione gratuita da un lato, mentre dall’altro s’industria a riprodurre con estrema fedeltà, quasi maniacale, scene prese dal primo e dal secondo anime. In più alla luce della scelta, anti-commerciale all’inverosimile, di adottare un ritmo piuttosto pacato, riducendo l’azione a pochi frangenti e rinunciando a luccichii ed esplosioni che eppure era lecito aspettarsi. Tutto ciò denota quantomeno un rispetto alla fonte che sa più di aderenza anziché scimmiottamento, deriva alla quale alcuni probabilmente piace già credere.
Invece no, per quanto ridimensionato, Ghost in the Shell per lo meno riesce ad eludere la disfatta, il traviamento totale, senza peraltro camuffarsi da altro rispetto a quello che è. Non regge la critica per cui questo film avrebbe potuto fare a meno del nome che porta, astrazione fine a sé stessa che non tiene conto della realtà dei fatti, ossia che tutto è stato concepito come un vero e proprio omaggio alla saga basandosi essenzialmente sulle conversioni cinematografiche. Certo, il risultato finisce anche col farsi metafora del destino di questo film, che cambia guscio ma che per restare vivo deve restare fedele (pure troppo) al proprio ghost; ennesimo gioco al quale il materiale in questione si presta spontaneamente ma senza il quale qualcosa rimane comunque. Perché al proprio interno questa versione sandersiana di Ghost in the Shell, per forza di cose irrisolta, vive più di reminiscenze, frammenti che non fanno un intero, confermando quel principio tomistico, e prima ancora aristotelico, per cui forma e sostanza coincidono. In tal senso Ghost in the Shell è il peggior sponsor che può fare a sé stesso: che sia voluto o meno, c’è in ogni caso da compiacersene.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6-” layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”5.5″ layout=”left”]
Ghost in the Shell (USA, 2017) di Rupert Sanders. Con Scarlett Johansson, Michael Pitt, Juliette Binoche, Michael Wincott, Pilou Asbæk, Takeshi Kitano, Chin Han, Christopher Obi, Joseph Naufahu, Kaori Momoi, Yutaka Izumihara, Tawanda Manyimo, Rila Fukushima, Chris Obi, Danusia Samal e Lasarus Ratuere. Nelle nostre sale da giovedì 30 marzo 2017.