Stasera in TV: Vivere e morire a Los Angeles – curiosità e considerazioni
Oggi in TV Vivere e morire a Los Angeles, gioiello di William Friedkin uscito nel 1985. Concediamoci qualche curiosità e soffermiamoci su alcune considerazioni
Stasera, 11 Ottobre, alle ore 23, su Iris verrà trasmesso Vivere e morire a Los Angeles (1985). Diretto da William Friedkin, con William Petersen, Willem Dafoe, John Pankow, John Turturro e Debra Feuer.
Tanto si potrebbe dire su questo riuscito poliziesco a tinte action. Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A.) è uno di quei film che all’apparenza non scardinano alcuna regola, salvo poi rischiare seriamente di riscriverle. Perché in fondo questo piccolo/grande gioiello di Friedkin brilla soprattutto agli occhi dei più smaliziati, ossia coloro che vanno oltre certe rigide strutture.
Uno dei film migliori, se non il migliore, del regista americano, che non si distinse ancora di più probabilmente perché appartenente a una stagione di copiose produzioni di questo genere. Erano gli anni ’80, ed il poliziesco di stampo ’70 andava trasformandosi. In compenso spopolavano action di ogni sorta, come mai in questo specifico decennio. In un contesto del genere Vivere e morire a Los Angeles seppe dire la sua; un’eco che continua a rimbombare anche a distanza di quasi trent’anni. Ma passiamo ad alcune curiosità.
Attenzione: d’ora in avanti si è a rischio SPOILER più o meno molesto. Dunque a vostra discrezione proseguire o meno con la lettura.
CURIOSITA’
– La sequenza d’apertura, quella in cui il personaggio di Willem Dafoe va stampando soldi falsi, è reale: si trattava di “vere” banconote contraffatte. La produzione ha ingaggiato un contraffattore già incriminato per mostrare loro come si facesse. Le riprese si svolgevano nel deserto e Willem Dafoe disse che ogni volta che sentivano un elicottero volare sopra l’edificio erano sicuri si trattasse della polizia per arrestarli tutti.
– Friedkin ha girato una scena in cui Vukovich, poco prima della resa dei conti con Masters, tenta disperatamente di riconciliarsi con sua moglie. Solo che alla fine decise di non inserirla. In un’intervista postuma, il regista ha dichiarato di non ricordarsi il perché di tale scelta ma di essersene pentito.
– Per il celebre inseguimento in auto ci sono volute sei settimane di riprese. Si è trattata dell’ultima sequenza che è stata girata, a quanto pare perché se qualcuno si fosse fatto male non sarebbe servito rimpiazzarlo per il resto delle riprese.
– Restiamo sull’inseguimento. La sequenza in questione fu girata con il flusso di traffico che andava al contrario. Anche se Chance e Vukovich sembrano guidare nella corsia sbagliata, in realtà sono loro che si trovano in quella giusta, mentre tutte le altre macchine si trovano in quella sbagliata (non a caso Chance guida sul lato destro, mentre il traffico procede sulla corsia di sinistra).
– William Friedkin si raccomandò con i Wang Chung di NON intitolare la canzone To Live and Die in L.A., ossia il titolo del film. La band britannica fece finta di non sentire e procedette ugualmente dando lo stesso titolo al loro brano. Quando lo suonarono a Friedkin, quest’ultimo cambiò idea e adorò la canzone.
– Inizialmente a Gary Sinise fu fatto un provino per la parte di Chance. Quando fu deciso che non sarebbe stato lui ad interpretare il ruolo, Sinise raccomandò William Petersen (colui al quale alla fine andò la parte) al regista.
– Friedkin insistette affinché ogni attività presente nel film fosse riportata con estrema accuratezza. Come già detto, per la parte tecnica relativa alla contraffazione del danaro furono ingaggiati due contraffattori “professionisti”. Per le procedure di polizia, invece, il regista si rivolse a Gerald Petievich (autore del libro da cui è tratto il film), il fratello Rick Petievich e la leggenda vivente del dipartimento di polizia di Los Angeles Jack Hoar.
– In sceneggiatura Friedkin mantenne solo il 20% degli elementi presenti nel libro originale.
– Una leggenda diffusa ad Hollywood vuole che Michael Mann citò in giudizio Friedkin per plagio. A dire di Mann, il collega avrebbe copiato l’intero concept alla base di Miami Vice: solo che alla fine perse la causa. Lo stesso Friedkin ebbe modo di dire: “Michael Mann ed io siamo stati buoni amici per trent’anni… niente del genere è mai accaduto“.
– Nonostante gli sforzi della troupe, alla fine alcune banconote contraffatte furono messe in circolazione. La qualità era davvero eccezionale, ma il sigillo della tesoreria sui soldi falsi usava la lettera X, che non rientra tra quelle adoperate dalla Federal Reserve. I Servizi Segreti raccolsero parecchie di queste banconote con la X per un po’ di tempo dopo la fine delle riprese.
– In origine la sceneggiatura prevedeva che Vukovich morisse durante la sparatoria nello spogliatoio. All’ultimo minuto William Friedkin e Gerald Petievich decisero di cambiare le cose, facendo morire invece Chance nella sparatoria e mostrando Vukovich assumere le sembianze del collega (questo fu il vero finale). La cosa innervosì la MGM, che chiese a Friedkin di girare un finale diverso. Quest’ultimo ne girò uno alternativo in cui Chance viene sparato nello stomaco anziché in testa, ed un altro in cui Vukovich e Chance vengono trasferiti in una stazione fuori Anchorage, in Alaska. Alla fine, Friedkin insistette però con l’idea iniziale.
CONSIDERAZIONI SUL FILM
Come accennato in apertura, ci troviamo dinanzi ad un’opera ben più ricca di quanto appaia. L’ossatura di Vivere e morire a Los Angeles si uniforma al genere, senza particolari eccessi. Abbiamo due poliziotti ed un cattivo. Quest’ultimo uccide uno dei due agenti, scatenando l’ira e la brama di vendetta da parte del collega e amico. Da quel momento in avanti il leitmotiv sarà il medesimo per l’intera durata della pellicola: il poliziotto si strugge nel dare la caccia a colui che ha ucciso il suo partner, e per riuscirci è disposto a tutto. Manco a dirlo, la vendetta in qualche modo si consumerà. Ma come?
Questo è il punto. Vivere e morire a Los Angeles è tutto fuorché un film conciliante. Come avete appreso leggendo le curiosità, Friedkin dovette battersi per imporre la propria idea su come dovesse finire il film e grazie al cielo ebbe la meglio: qualunque altro finale, specie tra quelli proposti, avrebbe finito col vanificare un film pressoché impeccabile (anche se c’è chi lamenta un certo allungamento dell’ultima sequenza, per cui sarebbe stato meglio chiudere sul primo piano a Darlanne Fluegel, come pare fosse previsto da copione).
Un film che ripesca a piene mani da temi portanti della tragedia greca: Chance e Masters puniti con il massimo della pena, ossia la morte (per giunta violenta), a causa della loro tracotanza. Una storia che inizia male e finisce peggio. No happy ending, sorry, verrebbe da dire. Un contesto che si fa beffa del concetto di eroe, riplasmandolo con un’ironia davvero pungente.
Al di là di metafore immediate come la passione dell’agente Chance per il bungee jumping, che Friedkin non manca di sottolineare proprio nel momento in cui vuole dimostrarci che il suo personaggio sta andando troppo oltre, il film è intriso di un non troppo velato sarcasmo. Mai pedante, né banale, il regista pare prendersi gioco di parecchie cose. Cose che si riassumono sostanzialmente in quello che possiamo definire il way of life che andava instaurandosi in quelli anni. Il ricorso all’arte e al ballo contemporanei sono lì a dimostrarcelo. Masters si circonda di entrambi, addirittura praticando la prima. Una sua conoscente sulla sedia a rotelle (altro smacco al politicamente corretto tanto diffuso all’epoca) dirà di lui che era un pittore capace e che certe sue opere erano notevoli. Perché l’uso del passato? Perché Masters era solito dipingere le proprie tele e poi bruciarle.
Tutto brucia nelle mani del personaggio di Dafoe, caratterizzato in maniera davvero particolare. Il rapporto che coltiva con le sue opere, non tanto con la sua Arte, a più riprese sfocia nel metafisico. Assecondando un malcelato e non ammesso puritanesimo, ad un certo punto lo vediamo davanti a un camino, completamente nudo, mentre si disfa di un ingente mole di banconote false da lui stampate. Alla domanda della sua donna: “perché lo stai facendo?“, Masters risponde macabramente, “dopo che li hanno maneggiati loro, non mi servono più“. Alla base giace una latente ossessione di purezza, quasi come se quelle banconote fossero state, per così dire, violate. I soldi falsi, dunque, come i suoi dipinti, altro non sono che espressione di quella parte di lui con cui non intende convivere ma che allo stesso tempo non riesce a reprimere. Allora meglio cedervi per poi sopprimerla del tutto, attraverso il fuoco purificatore.
Non meno complesso è il personaggio di Petersen, ossia Chance. Figura ambigua, come peraltro lo è il film stesso. Al di là del bene e del male, con quel suo sprezzo verso chiunque tenti di contrastare la sua volontà di potenza di nietzschiana memoria. Guidato da questa sua smania di imporsi ed imporre la propria vendetta, arde non meno del fiamme alle quali ricorre il suo doppio. Ma siamo sicuri si tratti di un doppio in senso stretto?
L’unica cosa certa è che tale tematica è forte in questo film. Vivere e morire a Los Angeles si conclude proprio mostrandoci una passerella di doppi, a partire dall’amante di Bianca, colei che fino a qualche sequenza prima è la donna di Masters, per finire con il palese trasferimento di personalità da Chance a Vukovich. Secondo un ciclico ricorso degli eventi, in cui tutto cambia affinché tutto rimanga com’è – secondo la celebre frase di Tomasi di Lampedusa.
E con quanto scritto non ci siamo nemmeno avvicinati a toccare il fondo. Ma l’opera di Friedkin non è solo esercizio di filosofia applicata, anzi. To Live and Die in L.A. è glamour, è azione, è atmosfera. Tutto riconducibile a quegli anni piuttosto singolari quanto a gusti e propensioni. Senza dimenticarci che in questa pellicola ci troviamo uno degli inseguimenti più poderosi della storia del cinema, dove peraltro sono i poliziotti (il “Bene”) ad essere inseguiti dai delinquenti (il “Male”), e non viceversa.
Un film, questo, che si pone quasi sempre un passo avanti allo spettatore, con quel suo continuo rimescolar le carte. Mettendoci alla prova, sul banco degli imputati ci siamo noi ma soprattutto le nostre granitiche certezze riguardo a ciò che è giusto e ciò che è sbagliato – immaginario su cui il cinema, inutile dirlo, ha inciso in maniera notevole durante il secolo scorso. Il resto è Rank & File, The Blasters etc. Ma soprattuto Wang Chung, che hanno curato l’ispirata colonna sonora del film, integrando un pezzo straordinario come Dance Hall Days.
In attesa dell’imminente uscita dell’ultima fatica di Friedkin, ossia Killer Joe, altro film sconvolgente, dissacrante e tutt’altro che scontato. Assistere a queste due pellicole, una dopo l’altra, potrebbe tramortirvi. Per concludere, eccovi il theatrical trailer di To Live and Die in L.A.