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Cannes 2017: Nelyubov (Loveless) – recensione del film di Andrey Zvyagintsev

Festival di Cannes 2017: ambizioso dramma a cavallo tra politica e spiritualità, Andrey Zvyagintsev racconta ancora una volta la Russia sebbene attraverso una specifica tragedia familiare

pubblicato 18 Maggio 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 06:12

Boris e Zhenya sono nel bel mezzo di una crisi il cui esito dev’essere solo formalizzato attraverso il divorzio. I due non si tollerano, la sola presenza dell’altro un insulto, la rievocazione silenziosa eppure assordante di un triste fallimento. Tra loro Alyosha, figlio dodicenne di poche parole, che dopo una lite furibonda tra papà e mamma capisce per filo e per segno la situazione: in quella casa lui è di troppo, dato che a quanto pare nessuno dei due vuole anche solo scomodarsi di comunicare l’imminente separazione. Dopo una notte in lacrime, il giorno dopo il piccolo esce; quella è l’ultima volta che lo vediamo.

Con Loveless Zvyagintsev gira un film molto ambizioso, apparentemente meno di Leviathan, che in superficie sembra un film più politico di questo mentre invece anche l’ultimo lavoro del regista russo in tal senso non scherza affatto. Il titolo è abbastanza esplicativo e parla di un contesto in cui non soltanto non vi è alcun amore ma non è nemmeno lecito pensare che mai ve ne sarà. Vuoi o non vuoi Zvyagintsev è della Russia che parla, stavolta operando il procedimento al contrario, ossia soffermarsi sul particolare per condurci verso il generale. E si prende i suoi rischi, va detto, sfiorando la metafora in più di un’occasione, cercandola proprio; è questo il caso degli ambienti in rovina di cui sono costellate parecchie scene, su tutte quella dell’edificio abbandonato dove il piccolo potrebbe essersi rifugiato. Non si può fare a meno di pensare alle rovine dell’URSS, di quel mondo e quel periodo così complesso che ha fatto spazio a qualcosa su cui Zvjagincev non è poi così clemente.

La stessa collocazione temporale, ottobre 2012, quando non pochi si fecero trascinare dall’ansia da fine del mondo sulla scorta delle profezie Maya non è per niente casuale. Il regista anche sotto tale aspetto non lascia nulla al caso perciò: non per niente l’epilogo è ambientato nel periodo della Crisi ucraina, altro evento per così dire “definitivo” che sta lì per una ragione, e la ragione è quella di far convivere la tragedia personale, il dramma familiare, quindi qualcosa di molto circoscritto, con fenomeni di ben più ampia portata. Per dimostrare in fondo che nella seconda fattispecie buona parte delle volte si tratta di chiacchiere, immagini su un pannello, che ci sfiorano appena tra una contrarietà e l’altra che riguardano il singolo e lui soltanto.

Fondamentale, a tal proposito, seguire l’evolversi dei personaggi, in particolare dei due coniugi in procinto di divorziare, prima e dopo la scomparsa del figlio. Lei sempre con quello smartphone a fotografare pure l’aria, infatuata come un’adolescente di questo tizio più anziano di lui e abbiente; lui totalmente sottomesso alle logiche aziendali, rintanato perciò nel proprio lavoro, che difende più della sua stessa vita, figurarsi di quella degli altri, fossero pure i familiari. Ecco perché, quando Boris ha oramai capito che il divorzio si farà, s’informa con un collega su come fare per limitare i danni, dato che il datore di lavoro è un ortodosso convinto, che non assume impiegati non sposati o dalla situazione familiare incerta. Problematiche da nuovi borghesucci, quali di fatto sono i due, buoni per tutto fuorché per essere genitori. È come se quel bambino sia loro caduto dal cielo, senza che il suo arrivo abbia concretamente contribuito a cambiare davvero nulla, a trasformarli; Boris e Zhenya sono ancora in quella fase di egocentrismo acuto che però, data l’età e le esperienze maturate, fa di loro degli alienati. Il cambiamento arriva, semmai, quando il figlio scompare.

Qualcuno sarebbe tentato di credere che i due siano semplicemente malvagi, ma si tratterebbe di una lettura approssimativa. È chiaro che si mostrano capaci di commettere azioni tremende, o di ometterne altre in maniera non meno deprecabile; ma il punto è che sono senz’anima. Moglie e marito sono due persone vuote e difatti l’odio reciproco è in larga parte dovuta a tale consapevolezza, inconscia o meno che sia: cercando un altro partner, scappando da quel contesto così familiare e mortificante, credono di poter riempire quel vuoto. La chiusa, terribile, ci dice che evidentemente non è così e che il danno è molto più profondo, radicale; non basta cambiare vita se prima non si cambia sé stessi, volendo un po’ filosofeggiare, e i due non sembrano capaci proprio perché privi (o privati) di quella capacità essenziale, che è quella di amare.

Poco sopra si è detto che Loveless è anche un film politico, e accidenti se è vero. Qui tocca però forzare un po’ i termini della questione ma la cosa non ci fa paura, né ci mette in soggezione. Il vecchio ed il nuovo nell’ambito dei quali si trovano Boris e Zhenya ha a che vedere per forza di cose con la Russia, con l’ineludibile ma pesante resa dei conti rispetto ad un recente passato tormentatissimo, l’implosione dell’Unione Sovietica tutto sommato ancora recente. La parabola è spietata e coinvolge la stessa anima russa, che in questo periodo di transizione, a quanto pare ancora in fase di sviluppo, sta dovendo necessariamente affrontare sfide che potrebbero plasmarla in maniera totalmente diversa.

Il mistero che aleggia perciò è marcatamente spirituale, perché è a quel livello, ci dice ancora una volta Zvjagincev, che la battaglia si sta consumando. Ci sono forze in campo che è difficile descrivere, dando ragione della loro entità; ed allora l’unica è stilizzare un po’, procedere per traslitterazioni ardite ma che un loro senso ce l’hanno eccome. Poi ci sono denunce che emergono senza particolari sforzi, come il gruppo che aiuta Boris e Zhenya a cercare loro figlio, gruppo sorto per sopperire all’inadempienza di una burocrazia che un poliziotto illustra bene all’inizio, lasciando intendere che in certe situazioni la polizia praticamente interviene quando oramai non c’è più alcunché da fare. In altri casi ci si deve sporgere un po’ di più, consapevoli che pressoché ogni personaggio sta grossomodo in luogo di qualcos’altro.

Nè a Zvyagintsev manca quel tocco di poesia con cui inizia e chiude il film, facendo ricorso ad un insignificante nastro, oppure, più diretto e perciò meno d’impatto, la tuta della Russia indossata sul finire da Zhenya. In Loveless insomma c’è un po’ di Antonioni ma soprattutto c’è Bergman, esplicitamente chiamato in causa dal regista russo in una recente intervista, per una sintesi oramai non per forza improbabile, alla quale possono aspirare solo certi cineasti. Film russo in tutto e per tutto, perciò chirurgico, gelido, ma anche inesorabile, con quella sensazione di apocalisse imminente che ci accompagna per tutto il tempo. Girato con rigore ma non per questo punitivo, anche perché il tutto è controbilanciato da una messa in scena oltremodo elegante, misurata, Ma che Zvjagincev sappia girare non lo scopriamo certo oggi. Il rischio è che a ‘sto giro una Palma per la regia non sia sufficiente.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]

Loveless (Russia, 2017) di Andrey Zvyagintsev. Con Alexey Rozin, Maryana Spivak e Matvey Novikov. Concorso.

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