Cannes 2017: Wonderstruck – recensione del film di Todd Haynes
Da Carol al romanzo illustrato di Brian Selznick, Todd Haynes manifesta cose sensate su immagini ed spazio, mentre su altri livelli Wonderstruck non mantiene quanto promesso
Ben ha perso da poco la madre (Michelle Williams), morta in un incidente d’auto. Ora il piccolo vive con la zia e i cugini, pur continuando a pensare alla madre, pure quando rievoca momenti in cui non faceva che inquietarsi con lei. Su tutti, quando le chiedeva del padre, che non ha mai conosciuto né sa chi sia; lei faceva la vaga, diceva che ne avrebbero parlato quando sarebbe arrivato il momento e tutto finiva lì. Accanto al proprio letto Ben ha una citazione di Oscar Wilde: «We are all in the gutter, but some of us are looking at the stars», che è un po’ come dire che l’essere totalmente asserviti alla cosiddetta natura non impedisce ad alcuni di puntare a cose più alte grossomodo. Per Ben è così letteralmente, dato che le stelle vorrebbe letteralmente toccarle, come fanno gli astronauti. Siamo nel 1977.
Nel 1927, invece, Rose fugge da casa per andare a trovare la madre a New York: quest’ultima è una diva del cinema di quegli anni, in procinto di accogliere il sonoro per la prima volta nella sin lì brevissima storia della giovane Arte. Rose però è sordomuta, perciò il suo viaggio non può che celare pericoli ad ogni angolo, anche banali; in una situazione analoga si trova pure Ben, che l’udito invece l’ha perso per via di un fulmine mentre era attaccato alla cornetta del telefono. Due percorsi apparentemente speculari, in due epoche diverse, accomunate però da alcuni elementi.
Nella prima parte Haynes infatti appronta un discorso che riguarda il cinema ma che al tempo stesso lo trascende, sull’importanza delle immagini e di come perciò sistemiamo lo spazio davanti e attorno a noi. «Vivi in un museo», dice la mamma bibliotecaria di Ben al piccolo, evidenziando quanto sia fortunato ad essere cresciuto in un contesto in cui è stato circondato di cose. Ma le cose non contano di per sé qualora non vengano organizzate in maniera armoniosa, sensata, e alla fine si capisce perché in Wonderstruck si faccia così tanta leva su questa tematica. Altro aspetto che accomuna i due ragazzini, negli anni ’20 come nei ’70, è la loro inabilità a sentire, che, al contrario di ciò che sarebbe pure lecito pensare, li aiuta ad ascoltare quanto diversamente sarebbe loro precluso dal rumore che c’è intorno.
Haynes perciò si getta a capofitto su questo racconto per ragazzi da un lato cercando di far propria la lezione che trasmette la fonte a cui attinge su quella che a conti fatti è la messa in scena, in cui senz’altro lui eccelle, bravo com’è a rendere addirittura credibile l’alternarsi delle due linee temporali, armonizzandole mediante una sinfonia di suoni e immagini in quell’unica storia che rappresentano. Quando però si tratta di tirare le fila, andando al di là del piacere che può generare una così fascinosa esecuzione, Wonderstruck cala parecchio, abbozzando questa storia in cui più esistenze s’incrociano, nuove famiglie si formano e via discorrendo. Haynes sa quando strappare la lacrimuccia, che immancabilmente scende, più perché si riesce ad intercettare certa sensibilità contemporanea, alla quale si fa proprio fare click da un certo momento in avanti, che per una costruzione realmente appassionante e appassionata.
Si guardi a come l’insistenza sulla preminenza delle immagini, o quantomeno sulla loro forza peculiare, condotta in certo modo, rischi di trasformare il tutt’altro che avaro parallelo tra cinema muto e condizione del sordomuto in un tutt’altro per via di un argomentare che si fa quasi sdolcinato, quando oramai l’emotività ha preso il sopravvento – e suppungo che l’inserimento di Space Oddity vada letto in questo senso. Certo, non è un saggio e la freddezza intellettuale non rappresenta di certa la direzione adatta per un film di questo tipo; per certe cose serve però il bilancino di Spielberg, che anche nei suoi lavori meno riusciti riesce sempre ad indovinare l’equilibrio giusto.
Poi è vero pure che Wonderstruck paga una prima mezz’ora o giù di lì di livello parecchio alto, che desta particolare interesse per il modo in cui riesce ad instaurare quest’atmosfera da favola, non solo per ragazzini. Dopodiché si smette di servire la storia, addossando tutto sugli ultimi dieci/quindici minuti. Scelta che non paga come avrebbe dovuto, anzi, lascia pure un po’ interdetti, dato che c’erano sicuramente i margini per lavorare un po’ meglio su ciò che precede quel finale, intenso fino a un certo punto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]
Wonderstruck (USA, 2017) di Todd Haynes. Con Michelle Williams, Julianne Moore, Oakes Fegley, Amy Hargreaves, Tom Noonan, Cory Michael Smith, James Urbaniak, Marko Caka, Hays Wellford e Damian Young.