Cannes 2017: Okja – recensione del film di Bong Joon-ho
Festival di Cannes 2017: quando si dice film per tutti, per nulla viziato dalla denuncia di fondo a consumismo e avidità delle multinazionali. Okja è un amore.
Nancy Mirando (Tilda Swinton) ha un sogno: rifornire il mondo di porcelli fuori scala e lasciare che a curarsene siano direttamente gli allevatori. Okja è il nome di una di queste creature, un incrocio appunto tra un ippopotamo e un maiale, cresciuta con Mija e suo nonno presso un’altura coreana; come altri della sua specie, Okja è stata creata in laboratorio e poi donata agli attuali proprietari. Tuttavia la policy della multinazionale di Mirando prevede che la merce torni alla base, chiaramente per essere macellata, confezionata e distribuita presso catene alimentari e supermercati. Passaggio di cui la piccola Mija non è al corrente, perciò la separazione non può che essere dolorosa: anzi, la ragazzina non ci sta e decide di seguire Okja fin dove hanno intenzione di portarla.
Bong Joon-ho riesce a fare qualcosa di singolare, ossia girare un film a suo modo di denuncia o per lo meno con una tesi piuttosto chiara in merito a fenomeni come consumismo, allevamento intensivo e avidità delle corporation sotto la specie della favola moderna, senza però perdersi strada facendo. Raccogliendo un testimone pesante, oltre che immancabile, ossia quello di Spielberg, perché Okja è in tutto e per tutto un monster movie, e di quelli buoni peraltro. A dispetto della tematica, l’ultimo lavoro del regista coreano ha un taglio alquanto giocoso, dato che evidentemente si rivolge in primis ad un pubblico più giovane: la prima parte del film sta a lì a testimoniare tale vocazione, in cui veniamo a conoscenza del tipo di rapporto che c’è tra la creatura e la ragazzina, il loro affiatamento, la loro affinità. E sono sequenze deliziose, contraddistinte da una tenerezza mai pedante.
Non c’è molta azione, sebbene non manchino alcune sequenze rocambolesche, ed il legame tra la bestia e la piccola rimane centrale, in ogni caso. Quando Mija viene avvicinata da un gruppo di convinti animalisti, a dispetto delle intenzioni di quest’ultimi, non ci sfugge per un attimo che l’avventurosa ragazzina appaia monca, come se le avessero amputato un arto. Lo so, si rischia di diventare sdolcinati; il punto è che tutto sta o cade su quest’amicizia, da cui infatti Bong Joon-ho parte e su cui fa terminare il film. Trovando un equilibrio incredibile, in cui tutto è misurato con criterio: nessun personaggio, per esempio, manifesta troppo o troppo poco rispetto al compito che debbono assolvere. Ciascuno, a proprio modo, sembra pienamente inserito nel proprio ruolo, quandanche assolvessero a funzioni, per così dire, marginali nell’economia della trama.
Per farsi un’idea si veda la personaggio di Giancarlo Esposito, il Gus di Breaking Bad: non è affatto irrilevante ma nemmeno centrale, e la sua gestione è bilanciata, qualche battuta, pochi gesti e via. Paul Dano è un altro che riesce finalmente a smarcarsi dall’invasato: il suo Jay, leader degli attivisti, denota semmai, e quasi paradossalmente, contegno, misura. Insomma, è una linea che il regista di Snowpiercer ha saputo applicare ad ogni singola componente del film, che d’altronde cavalca l’argomento tra il serio e il faceto, ma che prima di ogni altra cosa vuole smuoverci, arrivando a toccare il cuore.
E beh, ci riesce. Okja è già uno di quei “mostri” di cui difficilmente ci si dimenticherà; la sua cicatrice, la sua adorabile pesantezza. Puntando sulla componente avventurosa, Bong Joon-ho ci consegna un nuovo, importante tassello della sua filmografia, che conferma, tra le altre cose, la sua poliedricità, dato che è riuscito a cimentarsi, e bene, in un genere nel genere che addirittura pochi cineasti hollywoodiani sanno padroneggiare a dovere. Il coreano a ‘sto giro alza di nuovo la voce e si candida a pieno titolo per fare parte di quella schiera di registi stranieri che pur lavorando nell’industria dorata riescono a ritagliarsi un proprio spazio. Certo, di mezzo c’è Netflix, che al momento ha tutto da guadagnare nel “correre il rischio” di dare carta bianca a coloro i quali decide di dare fiducia; non è detto che in un altro ambiente le cose sarebbero andate allo stesso modo.
Prima dell’antipatica ma necessaria diatriba tra Cannes e Netflix vi è stato un momento in cui Fremaux e soci hanno ritenuto fosse opportuno schiaffare in Concorso un film di questo tipo, ed è un segnale che le critiche successive tendono inevitabilmente ad oscurare. Al contrario, la sua presenza in Concorso appare decisamente sensata, dunque indovinata. Okja è opera trasversale, intelligente, attraverso cui si riesce a raccontare una storia a conti fatti senza barriere e limiti d’età quanto ai potenziali fruitori, sulla quale aleggia una riflessione che però non prevarica mai, nemmeno quando il film si fa più serioso, dopo aver saputo modulare a dovere la calorosa leggerezza che eppure lo contraddistingue. Una parabola sull’amore che ha poco a che spartire con gli slogan, senza però privarsi dell’opportunità di evocare contrapposizioni significative come quella tra paesaggio bucolico e caos urbano, tra sete di profitto e tutela dell’ambiente, giusto per dirne due. Eccellendo, per concludere, anche su un altro fronte, nient’affatto secondario, ossia quello inerente alla resa visiva: specie nella prima parte, si osservi a come non solo Okja stessa ma il suo inserimento nell’ecosistema davanti alla macchina da presa sia armonioso ed estremamente verosimile.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]
Okja (USA/Corea del Sud, 2017) di Bong Joon-ho. Con An Seo-hyun, Jake Gyllenhaal, Tilda Swinton, Lily Collins, Steven Yeun, Devon Bostick e Giancarlo Esposito. Concorso.