Dunkirk: recensione in anteprima del film di Christopher Nolan
Prova di maturità per Christopher Nolan, il cui Dunkirk rappresenta una summa composta del suo cinema, senza però venirne in alcun modo limitato. Una finestra su un mondo di disperazione in cui però regna la speranza sotto forma di sinfonia sinestetica
Uno dei nostri, George.
Il ticchettio di un orologio. Battiti di cuore. Ancora una volta il primo nemico, quello più arduo da contrastare, per Christopher Nolan non sta fuori. Men che meno quando al centro vi è la sopravvivenza, che è sempre una lotta contro sé stessi prima che contro agenti esterni di qualsiasi natura. In Dunkirk la minaccia non entra quasi mai nell’inquadratura, e quel po’ che ci è dato di scorgere è nulla rispetto all’interesse che il regista britannico mostra per i minacciati; c’era insomma già tutto in quel primo trailer, un folto gruppo di soldati assiepati su una banchina mentre sopra di loro sfreccia “qualcosa” e tutti la osservano, incuriositi, spaventati. In tal senso ci troviamo dinanzi a un horror, e che horror!
Dunkirk, come ci è stato più volte ripetuto in questi giorni, e come già sapevano gli appassionati o studiosi di Storia, non narra chissà quali gesta eroiche; non è la storia di una vittoria in senso stretto, così come il film che ne riporta certi fatti non è un film di guerra in senso stretto. Contenuto e forma si pongono su un altrove inesplorato, in un modo molto personale, così come a proprio modo della guerra ci avevano già parlato cineasti immensi come Kubrick e Malick. I paragoni, tuttavia, lasciano il tempo che trovano e in Dunkirk vince chi si salva, non importa come. Il problema è che a perdere sono tutti, anche qui, non importa a quali condizioni. Perché questa è la storia di una ritirata, non di una conquista: l’unica battaglia, quella vera, come sovente accade nel cinema di Nolan, è quella che l’uomo combatte, come già accennato, contro sé stesso. La domanda, che fino a ieri era: «fino a che punto possiamo fidarci di ciò che pensiamo e di ciò che vediamo?», ora consiste nel: «fino a che punto possiamo fidarci della nostra volontà?». Giusto una leggera variazione sulla carta, che però comporta implicazioni di portata immane.
Quattrocento mila soldati britannici sono bloccati sulla costa di Dunkerque. Siamo agli inizi della Seconda Guerra Mondiale e i tedeschi si apprestano ad invadere la Francia. Una situazione surreale, un limbo terreno in cui le vite di tutti questi uomini restano sospese. Proprio tale sospensione ci informa sul perché una pagina del genere si presti così tanto per essere approcciata da Nolan; basta rivolgersi a quell’unico criterio che fa la differenza nei suoi film, ossia la temporalità. Orientarsi nei suoi lavori perciò non consiste mai nella ricerca di un dove bensì di un quando, nel trovare una collocazione temporale prima ancora che spaziale. Ma non è tutto qui.
Nel 2015 Jerzy Skolimowski porta a Venezia 11 minuti, film il cui titolo dice tutto: undici minuti che precedono una catena d’incidenti nei quali vengono coinvolte più persone. Il regista polacco costruisce il tutto meticolosamente, illustrando con scrupolo azioni e spostamenti; eppure il suo rimane un gioco, una scatola vuota. C’era il tempo e nient’altro. Quando Nolan introduce le prime sequenze di Dunkirk non solo con quel ticchettio che accompagna l’intero film ma anche con dei battiti, capiamo che la carnalità della vicenda non può essere messa in discussione; un tipo di carnalità diversa, che non è mai esposta, vessata come succede in tanti altri film di guerra. Nolan evoca, ci parla ancora una volta di prospettive, senza però mai scadere in un relativismo becero, diversamente non si spiegherebbe l’universalità di ciò che racconta. I suoi personaggi sono volti, non hanno retaggi alle spalle, o quantomeno, a noi non è dato conoscere alcunché in tal senso. Dacché lo schermo illumina la sala con questi soldati che camminano lungo una via apparentemente deserta, si viene catapultati lì, nel nord della Francia di quasi ottant’anni fa: ne usciremo solo 107 minuti dopo.
Nolan non ci prepara all’azione perché Dunkirk è azione. Quando ci affacciamo su quel contesto lì il conto alla rovescia è già scattato e a noi non resta che assistere alla tragedia umana non di un gruppo bensì di tanti singoli uomini che possono aggrapparsi ad una cosa ed una soltanto: la speranza. Nulla, razionalmente, porta a credere che da quella spiaggia vi sia via d’uscita; resta da decidere se di quel limbo sopra evocato farne un inferno oppure entrare nell’ottica di un purgatorio: ancora una volta, prospettive. Come lo è inevitabilmente il tempo. Dunkirk racconta la medesima vicenda attraverso tre storie diverse ma convergenti: i soldati che stanno sul molo, i civili che partono dalle coste inglesi, ed infine i piloti che sfrecciano in aria coi loro Spitfire. Acqua, terra e mare. Ed è ancora una volta un tunnel d’incastri, con medesime situazioni che si ripetono, vissute però da punti di vista differenti.
Come in Inception, ogni contesto ha una sua durata, che è prettamente filmica, per così dire: nel molo è una settimana, in barca un giorno, in aria un’ora. A conferma che niente si presti meglio del tempo al cinema, a ‘sto giro non ci si limita al trick narrativo tanto vituperato dagli anti-nolaniani. Dunkirk è intriso di un realismo al quale il già realista Nolan non era più approdato da Memento in avanti; l’intuizione di mescolare queste tre storie creandone una monolitica è probabilmente la più felice. Quest’ultimo lavoro del regista de Il Cavaliere Oscuro è una sinfonia che denota un’acquisita padronanza a più livelli: dell’argomento, del modo di esporlo, delle tematiche che evoca, finanche dei generi, che implementa con un’armonia disarmante.
E la guerra? Nessun sentimentalismo, né trionfalismi o eroismi di sorta. Non perché certe cose siano banali, ma perché banale è stato l’uso che se n’è fatto e la malvagia idea di elevarli a stilemi di un genere. Qui invece vengono coniugate l’esigenza di un cinema puro, netto, cristallino, con quella di farti entrare in una storia. Dunkirk spazza via trent’anni di cinema di guerra e si pone ad un livello tale da giocarsela più o meno con chiunque. La simbiosi tra Nolan e quella tremenda ma bellissima macchina che è Hollywood oramai è pressoché totale: l’uno senza l’altro non sono immaginabili. Un lavoro che testimonia la piena maturità di questo cineasta, che mai come in quest’occasione ha trovato la quadratura del proprio cerchio, assimilando i generi per poi tirarne fuori qualcosa di spiccatamente personale, non a tal punto però da negarli, da proporre una rimasticatura sui generis. Viscerale come un horror, appagante come un thriller, poetico come un’opera sperimentale, Dunkirk è la summa composta e per certi versi risolta di un’intera carriera, posta sotto una luce oramai diversa rispetto a buona parte di coloro che orbitano attorno all’industria dorata.
Mai come questa volta, infatti, Nolan è riuscito a bilanciare certa propensione ad un cinema spettacolare, d’impatto, con delle premesse ed un’esecuzione che trovino pieno compimento nell’incipit narrativo di una storia che si ha l’impressione non sia possibile essere riferita meglio di così, con maggiore capacità di affabulare, con più senso d’immersione. Asciugato di tutto ciò che potrebbe distogliere, tenuta a freno la bravura oramai ampiamente riconosciuta, Nolan fabbrica perciò l’ennesimo ingranaggio, fatto di molle e rotelle che combaciano perfettamente, da cui l’impeccabile funzionamento. Epperò, a dispetto di quanto appena rilevato, un viaggio tutt’altro che freddo, distaccato, anzi; niente come il cinema può dar ragione di una determinata condizione calando lo spettatore in un dato contesto. Nolan questo fa, ossia ci catapulta senza fronzoli in un mare di disperazione che muta in riscatto, lo stesso riguardo cui i libri di Storia non saranno mai in grado di darci un’idea altrettanto lucida, quasi esaustiva.
Nessuna vittoria, nessuna sconfitta, checché quel giorno del 1940 fece registrare la cronaca: solo il racconto di migliaia di anime in pena legate dal medesimo evento, da cui derivarono tanti destini quanti furono coloro che ne presero parte. In un’epoca satura d’immagini, Nolan riesce ad individuare quelle ancora capaci di dire qualcosa; e non c’è da credere sia un caso se molte volte all’interno di ciascuna di esse vi sia un volto e la relativa espressione, come voleva Bresson. Com’era il cinema appena nato, ben prima che un aereo planasse su una spiaggia stringendoci il cuore.
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Dunkirk (USA-Regno Unito-Francia, 2017) di Christopher Nolan. Con Tom Hardy, Cillian Murphy, Mark Rylance, Kenneth Branagh, Aneurin Barnard, Harry Styles, Jack Lowden, Fionn Whitehead, James D’Arcy, Kevin Guthrie ed Elliott Tittensor. Nelle nostre sale da giovedì 31 agosto 2017.