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Thor: Ragnarok – recensione in anteprima

Con Ragnarok si porta la saga di Thor su territori forse inesplorati per la saga ma sin troppo familiari ad una Marvel che manifesta una vieppiù pressante necessità di passare allo step successivo, mettendo un punto a ciò che è stato fino ad ora

pubblicato 20 Ottobre 2017 aggiornato 28 Agosto 2020 00:47

Ragnarok, la fine di tutto nella mitologia norrena; quel punto di non ritorno in cui il mondo, distrutto, rinasce sotto forma di nuova creazione. Ed è un po’ quanto si è voluto fare con la terza iterazione Marvel di Thor, ossia ripartire. In qualche modo prendere le distanze da sé stesso ed in generale dal tenore di un universo oramai alla canna del gas. Ne parlavamo già allorché toccò accostarci a Spider-Man: Homecoming, il meno Marvel tra i film Marvel: emerge infatti questa sempre più pressante esigenza di staccarsi da un “vecchio” modo d’intendere i cinecomic e appropriarsi di un nuovo linguaggio, dando per scontato che si sia consapevoli che quello dei cinecomic sia a propria volta un linguaggio nel linguaggio (facciamo un dialetto, dai).

Qualcosa di simile avvenne pure con il secondo Captain America, che optò per una sorta di spy-story che, pur dando segni di una prima forma d’emancipazione, restava comunque fedele alla linea. Qualche avvisaglia, tuttavia, avremmo dovuto scorgerla già ai tempi del vituperato Iron Man 3, affidato a quello Shane Black il cui nome non solo significa qualcosa bensì è qualcosa; quel qualcosa che rimanda ad un periodo, un modo di fare, un filone cinematografico molto fortunato, ovvero gli action anni ’80, intinti giusto un pizzico nel comedy. Da qui è agevole comprendere perché un trattamento di questo genere fosse assimilabile dai prodotti Marvel; questo e l’oramai ampiamente sdoganata nostalgia da parte di chi quel periodo nemmeno l’ha vissuto.

Insomma, di mezzo c’è pure Guardiani della Galassia, il cui feticismo per quel decennio finisce con l’essere pressoché trainante, quasi ragion d’essere. Ma lì l’integrazione non è nemmeno tale, nel senso che non si tratta di un elemento aggiunto, bensì di un aspetto connaturato al progetto. Quanto a Thor? Tollera un cambio di forma così invasivo, dopo due film che, piacciano o meno, sono tutt’altra cosa (il primo una rivisitazione della tragedia classica affidata non per niente a Kenneth Branagh, il secondo più dark, come vuole il titolo stesso peraltro)?

A ‘sto giro la discriminante, volendo, sta nel cambio di taglio di capelli dello statuario protagonista, che mediante questa piccola/grande modifica ci dà contezza dell’intera operazione: con lui l’intera saga di questo supereroe cambia aspetto, rinnovandosi, o per lo meno ci prova – mica quando uno decide di cambiare in maniera così drastica può aspettarsi di piacere per forza. E va detto, uno dei valori aggiunti dei cinecomic di Marvel è stato ed è, l’abbiamo rilevato più volte, questo suo porsi come un genere nel genere, abbracciandoli tutti senza vincolarsi a nessuno. Questo per mettere le mani avanti e chiarire preventivamente che no, non è l’idea in sé, la decisione di “cambiare” che non funziona.

Thor: Ragnarok vira alla commedia in maniera pressoché spudorata, ma da subito proprio: neanche il tempo di cominciare che il dio del Tuono si ritrova invischiato in questo siparietto al cospetto di colui che concretamente Asgard dovrebbe raderla al suolo. E fa pure sorridere, non ci si fraintenda, ma è un programma questo, il cui intento risulta chiaro strada facendo. Finora alla Marvel si sono malgrado tutto dimostrati abili nel contenere certa verve, nel non lasciarla a briglia sciolta, ché diversamente il cavallo, imbizzarrito, avrebbe fatto danni. Il terzo film della saga approda a questa amara oltreché metaforica fattispecie: la licenza prende il sopravvento ed il film si appiattisce su di essa.

Alcuni potranno anche apprezzare la non poca carne al fuoco che attraverso tale percorso viene messa, basti pensare al rapporto tra Thor ed Hulk, quest’ultimo ancora più umanizzato, reso per certi versi accessibile, ma in generale pure allo sviluppo del protagonista, che ci viene consegnato alla fine praticamente abile e arruolato per una nuova trilogia o quello che sarà, in attesa chiaramente del prossimo Avengers diviso in due parti.

Qualche esempio pratico rispetto a quanto evidenziato poco sopra: che la bussola sia partita, suo malgrado, ce lo “dimostra” anzitutto una struttura che è appunto da action anni ’80, più che consumato, consunto. Thor resta imprigionato sul pianeta Seekar dopo aver scoperto che Odino è pronto a cedere il proprio trono; il Gran Maestro (Jeff Goldblum), uno degli Antichi dell’Universo, ha organizzato il pianeta come un immenso parco giochi, dove perciò non mancano attrazioni quali dei riadattati giochi gladiatori, con tanto di Colosseo (ma questo già lo sapete dato che rappresenta la scena iconica su cui ha fatto perno la campagna di promozione). Nel frattempo su Asgard grava il minaccioso ritorno di Hela (Cate Blanchett), potente divinità allontanata a suo tempo da Odino ma che ora reclama a gran voce il trono.

Due spiccioli sulla trama che di per sé, insomma, ci dicono poco o nulla sulla tenuta generale. Quella per esempio di un Loki su cui ci si sta accartocciando, oramai assurto a caricatura, parodia del suo stesso personaggio, malgrado Tom Hiddlestone resti forse il più affascinante tra gli attori che hanno preso parte al progetto – forse al pari dello Strange di Cumberbatch, che qui fa una comparsata rischiando di rubare la scena. E se anche nel recente passato la cifra dei film Marvel filtrasse pure attraverso il gioco di specchi tra le varie saghe, questo processo se vogliamo auto-referenziale ma che trova ragione nell’impronta tutt’altro che seriosa di buona parte dei film, sembra che oramai oltre a tutto ciò sia rimasto ben poco. Quindi no, Thor 3 non si regge poi così bene sulle proprie gambe, dato che se non hai modo di cogliere certi riferimenti non hai semplicemente perso una parte ma in fondo il senso di tutto l’ambaradan, il che non è poi così ammissibile come sembra.

Quasi che per restare in vita, per dire qualcosa, alla Marvel non resti che parlarsi addosso, o quantomeno delegare più del lecito a ciò che è venuto prima, generando la percezione che d’ora in avanti ci si debba aspettare non più lungometraggi autoconclusivi, per quanto appartenenti chiaramente ad un’impresa più grande e articolata, bensì frammenti di questo insieme. Allora non resta che buttarla in caciara, per ricorre ad un’espressione idiomatica quintessenzialmente nostrana; non tanto perché Ragnarok sia solo spari, scontri ed esplosioni, quanto perché tra le varie fasi non vi è armonia alcuna, non importa quanto una singola o più sequenze isolate possano far sorridere e/o intrattenere. Finché addirittura uno dei protagonisti non finisce con l’impugnare due mitra modello Chuck Norris, la qual cosa contempla, se ci si pensa, un po’ il marcio di un citazionismo così spinto e privo di discernimento, lo stesso che ha rischiato di affossare (non da solo eh) il sequel dei Guardiani della Galassia. Sotto il vestito, per parafrasare un Vanzina, poco o niente dunque.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”4″ layout=”left”]

Thor: Ragnarok (USA, 2017) di Taika Waititi. Con Chris Hemsworth, Tom Hiddleston, Jamie Alexander, Mark Ruffalo, Cate Blanchett, Anthony Hopkins, Benedict Cumberbatch, Idris Elba, Tessa Thompson, Jaimie Alexander, Karl Urban, Sam Neill, Ray Stevenson, Jeff Goldblum, Lou Ferrigno e Stan Lee. Nelle nostre sale da mercoledì 25 ottobre 2017.

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