La ruota delle meraviglie: recensione del film di Woody Allen
Sepolto tra le tante, tutt’altro che indimenticabili linee di dialogo della sua protagonista, c’è forse quel film che La ruota delle meraviglie sarebbe potuto essere. Di rado un Woody Allen così poco sottile
Ne La ruota delle meraviglie è tutto così bello, magico, incantato. Merito di Vittorio Storaro, che dipinge dei quadri espressionisti in movimento, alternando luci e colori con la solita competenza. Il punto è… a che pro? È raro che un lavoro di fotografia così certosino si riveli altrettanto mal riposto, cosa che in maniera ineludibile avviene in quest’ultimo lavoro di Woody Allen.
Ginny (Kate Winslet) è una moglie tutt’altro che realizzata, come si dice oggi, quantunque il film sia ambientato svariati decenni fa. Vive a Coney Island, luogo che ha imparato ad odiare, dice, per via di quel chiasso che aggrava le sue emicranie, mentre è lecito pensare che a destabilizzarla di più sia il vedere tutte quelle persone felici, foss’anche per poco, visto che si tratta di un parco-giochi. Non sai mai con Allen, perciò a questa «ruota delle meraviglie» di significati se ne possono appioppare; e se scarterei l’ipotesi della ruota che gira dal retrogusto karmico, quasi a ristabilire sempre un equilibrio per cui tanto ci viene tolto ed altrettanto ci viene restituito (e viceversa), opterei con più convinzione sulle “meraviglie” che ci sorprendono nostro malgrado, quasi sempre tramortendoci.
Il marito di Ginny, Humpty (Jim Belushi), è uno spiantato che passa il tempo aggiustando giostre e andando a pescare, quantunque Ginny odi pescare. A casa quest’ultima deve destreggiarsi, a parte che con le proprie fisime, con un figlio piromane, che appicca incendi ovunque ma che adora guardare film; insomma una situazione tutt’altro che semplice. La misura diviene colma, tuttavia, quando Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty ha avuto dal suo precedente matrimonio, si presenta alla porta dicendo che il marito, un gangster, la vuole uccidere; fu questa la ragione per cui anni prima era scappata di casa, da allora senza più sentirsi col padre.
Sembra quasi la parodia di un film di Allen, e tale lo diventa col dipanarsi del racconto. Come fare oramai ad accostarsi ad un film di Woody Allen senza ripetere sempre le stesse cose? Troppo prolifico; dovrebbe curare meglio certe sue sceneggiature e via discorrendo. Il punto è che Wonder Wheel (titolo originale) risente ancora di queste magagne qui, con la differenza che a questo giro la fatica di Allen si fa se possibile più vistosa. Per esempio nel ricercare la battuta spiritosa che quasi mai arriva, nel forzare le cose col personaggio della Winslet, la cui alchimia con Belushi è peraltro prossima allo zero. Amareggia ancora di più prendere atto che qualcosa lì sotto si muoverebbe pure… peccato resti sepolta da una congerie di frasi per lo più inefficaci, talvolta finanche nel loro girare consapevolmente attorno al cliché.
Il personaggio di Justin Timberlake, per dirne un’altra, serve esattamente a tale proposito, ossia ironizzare su questi «wannabe writers», come direbbero gli americani, aspiranti scrittori da strapazzo che leggono Hemingway e ritengono che la loro vita debba rispecchiare quella dei grandi, oppure dei loro romanzi. Un inno alla mediocrità insomma, su cui però Allen non sembra esercitare granché controllo stavolta. La commedia, diceva qualcuno, parte sempre da prospettive non edificanti, dal cinismo che si fa sarcasmo e che viene catalizzato attraverso ora la satira ora in generale l’ironia: su sé stessi o su ciò che fa soffrire, quasi ad esorcizzarlo.
Ed effettivamente c’è un lato di questo lavoro su cui non si può glissare così facilmente, ossia quello che rimanda alla vita di Allen ed i suoi trascorsi con Soon-Yi o l’aleggiata molestia ai danni di Dylan Farrow. In un periodo come questo simili rimandi quasi inquietano, né però, come accennato, si può fare a meno di pensarci: basti osservare la parabola di Ginny, rosa dal senso di colpa per aver fatto fallire il suo primo matrimonio e appunto radicalmente insoddisfatta. Nella liason clandestina col ben più giovane bagnino scorge quell’oasi di ristoro alla quale aveva smesso di sperare, per poi rendersi conto che di mero fuoco fatuo si trattava.
Alla domanda, a dire il vero superflua a questo punto, circa il fatto che Woody Allen utilizzi il cinema quale parte di una non meglio precisata terapia, il diretto interessato ha giustamente sempre preferito non esternare risposte serie. E ha fatto bene, se possiamo. Con Wonder Wheel si ha però l’impressione di un processo che ha assunto toni decisamente più cupi; una considerazione che a questo punto va fatta, dato che in questa claudicante pièce teatrale prestata al grande schermo c’è davvero tanto, troppo del regista, e davvero poco più. Se in passato si era nondimeno inclini a mostrare accondiscendenza, laddove non venerazione verso certo tipo di operazioni, oggi tocca ammettere, forse addirittura in ritardo, che tutto ciò non basta. E se questo vale per una delle penne più brillanti del cinema americano degli ultimi cinquant’anni, che dire di tutti gli altri?
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Gabriele” value=”5″ layout=”left”]
La ruota delle meraviglie (Wonder Wheel, USA, 2017) di Woody Allen. Con Kate Winslet, Juno Temple, Justin Timberlake, Jim Belushi, Max Casella, Tony Sirico, Steve Schirripa, Jack Gore, Debi Mazar, Geneva Carr, David Krumholtz, Robert C. Kirk e Tommy Nohilly. Nelle nostre sale da giovedì 14 dicembre 2017.