Cannes 2018, The House that Jack Built: recensione del film di Lars Von Trier
Festival di Cannes 2018: il più autobiografico di tutti, Lars Von Trier stavolta spiazza per la sua apparente sincerità, oltre che l’ambizione di un progetto che è anche un radicale punto della situazione
Li chiama incidenti. Cinque in tutto. Cinque omicidi tra gli oltre sessanta che Jack (un Matt Dillon che d’ora in avanti guarderemo con occhi diversi) ha compiuto nel corso della sua discreta carriera da serial killer. Originariamente ingegnere, Jack si è dato anima e corpo alla seconda attività; d’altronde, è lui stesso a dirlo, non gli manca di che campare. Sta anche cercando di costruire un casa, ha comprato un lotto apposta, solo che ha già abbattuto per ben tre volte tre progetti diversi non appena cominciavano ad assumere un vaga forma. Non si sa cosa aspettarsi da questo Von Trier, o forse sì, perciò, in un senso o nell’altro, si tende a partire prevenuti. Lui lo sa e si adegua, nel senso che procede per la propria strada, girando un film che, nell’ambito del suo percorso, è pure qualcosina di più.
The House that Jack Built è il regista danese che si spiega, aprendosi, senza tralasciare nemmeno gli argomenti più scabrosi, come quello che ha propiziato il suo allontanamento da Cannes, durato sette anni. E come sempre non si sa cosa prendere, come registrare le tante uscite sopra le righe, questo suo sarcasmo a tratti truce, il non voler vedere confini. C’è tutto un discorso intorno all’Arte e al processo creativo che lì per lì a tratti stona, quasi indispone: tra un omicidio e l’altro Jack in pratica tiene delle lezioni, argomenti che stanno sicuramente a cuore a Von Trier, il quale infatti ne approfitta per trasmette sapere allo spettatore. Sa che potrebbe contrariarlo, che tra questa cosa qui e quel finale da Inferno dantesco alla Gustave Doré rischia la graticola. Di nuovo, lo sa ma procede uguale.
L’incipit non è che un pretesto, l’ennesimo, per attardarsi sui propri turbamenti, su ciò che in fondo questo cineasta pensa della vita, del lavoro, delle aspirazioni e degli altri, ribadendo una cosa proprio in relazione a quest’ultimi, che in teoria dovrebbe assolverlo dall’accusa di antisemitismo mossagli nel 2011: come se dicesse «non odio un popolo, odio l’uomo, tutti gli uomini, compreso me stesso». Anche qui, non si è persuasi a prenderlo più di tanto sul serio, ma ancora Von Trier riesce a non sprofondare nella parodia di sé stesso, di questo gli va dato atto. Certo è che il tutto è molto cupo, deviato, ma va pur detto che a ‘sto giro non è che ci s’inventi granché. Peraltro, a differenza di quanto alcuni sostengono, non mi pare si sia alzata più di tanto l’asticella di ciò che è possibile mostrare, in generale, non solo al cinema. Ci sono episodi al limite, tipo l’uccisione di due ragazzini, è vero, ma la soglia dello sguardo è già stata messa a dura prova dai media che mostrano immagini di guerra, in cui a perdere la vita, manco a dirlo, sono anche dei bambini.
Non è un caso se si tende a dare del furbo a Von Trier, proprio per questa sua propensione a muoversi sempre lungo quella linea sottilissima che separa ciò che è moralmente accettabile da ciò che non lo è, o è addirittura immorale; in un’epoca in cui, peraltro, una sorta di canone è oramai venuto clamorosamente meno. Non pochi sono scesi a patti con questo vezzo del regista danese, altri non ne hanno alcuna intenzione. Ebbene, sia gli uni che gli altri non s’ingannino: l’approccio non cambia. A cambiare è semmai che, come in parte accennato, The House that Jack Built è forse la sua opera più autobiografica, attraverso un procedimento che non manca d’ironia, dato che, per illustrarci quello che è un suo possibile metodo di lavoro, un modo di vedere l’Arte, si serve delle ambizioni e delle percezioni di un assassino. Solita estremizzazione che però trascende il film stesso, entrando nella vita o per lo meno nella carriera del nostro.
L’anelito alla grandezza, da conseguire mediante una libertà assoluta, l’essere in qualche modo vittima di tutto ciò, come a dire che ciascuno ha la propria di missione e assecondarla può rivelarsi un fardello. Non so quanto lontano possa portare questa specie di processo alle intenzioni, ma è pur vero che in qualche modo un’opera va contestualizzata, tanto più questa, che in fondo è frutto di una reazione per quanto possibile di pancia, da qui il suo apparire difettosa, in parte perché lo è suo malgrado, in parte perché è stata concepita per esserlo. Arriva persino a sostenere, chiaramente per bocca di Jack, di voler liberare l’Arte (o forse il Cinema, chi può dirlo?).
Al di là delle sentenze, ad ogni buon conto, questo trattato sull’atto creativo, che ironicamente (oppure no) passa dal porre fine a una o più vite, metaforicamente o meno, è incarnato da un uomo che non trasmette nulla, men che meno vita. Si ha l’impressione che il primo a fare le spese in un film come questo sia proprio il suo autore, ed è questo che tende a colpire di più, non tanto gli strangolamenti, le mutilazioni e tutte quelle macabre pratiche in cui si prodiga il protagonista, effettivamente disturbanti. Infatti qui non è in discussione l’affermazione per cui certe scene possano rivelarsi pesanti, finanche sconcertanti, eppure mi pare che la loro presenza sia, se non giustificata, di certo non così gratuita come si sarebbe portati a credere.
Sviati forse anche dalla struttura, composta sostanzialmente da piccoli cortometraggi slegati tra loro per altrettante vicende: venendo meno una forma narrativa coerente, perciò, si potrebbe pure pensare al pretesto. Ma se di pretesto si tratta, sono i termini della questione che vanno riveduti: non il film un pretesto per “violentare” lo spettatore con certe immagini, bensì certe immagini un pretesto per demolire ogni cosa, compreso appunto sé stesso. Il finale, in tal senso, non dà scampo, anche qualora si trattasse dell’ennesima boutade: il perdersi per sempre quale unico orizzonte possibile a fronte di un’esistenza percepita in questo modo.
Insomma, non si può restare indifferenti a questo Von Trier, che mai come adesso si racconta con una sincerità disarmante, quasi denudandosi ed ammettendo di tutto e di più: di non soffrire le donne, di essere un manipolatore, così come di sentirsi in dovere di girare i film che gira, perché solo lui può, dunque deve farlo. Apologetico, auto-indulgente, sarcastico, pretenzioso, ditegli pure tutto quello che volete, ma Von Trier stavolta passa in rassegna un malessere reale, profondo. Da qui la sua vitalità, espressione di un’autenticità che per certi versi bypassa finanche le intenzioni. Un film ambizioso, potente e prepotente, che è poi la vera ragione per cui c’è chi non riuscirà a fare a meno di girarsi dall’altra parte.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
The House that Jack Built (Danimarca/Francia/Germania/Svezia, 2018) di Lars von Trier. Con Matt Dillon, Bruno Ganz, Riley Keough, Sofie Gråbøl, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan, Ed Speleers, David Bailie, Ji-tae Yu e Osy Ikhile. Fuori Concorso.