Cannes 2018, Long Day’s Journey Into Night: recensione del film di Bi Gan
Festival di Cannes 2018: il viaggio nella notte di Bi Gan è un tuffo nella memoria attraverso il sogno vagando per una cittadina spettrale. Un’opera seconda maestosa
«I sogni altro non sono che ricordi perduti». Ricordi dal futuro, verrebbe da dire dopo aver visto Long Day’s Journey Into Night, l’abbagliante opera seconda del giovane regista cinese Bi Gan. L’ottava generazione è oramai tra noi, e si preannuncia solida, foriera di quel fascino davvero senza tempo che solo da quella parte di mondo pare essere possibile ricavare. Quando, nel 2015, Kaili Blues sbucò fuori da Locarno solo alcuni si resero conto di avere tra le mani una bomba, o comunque un promettente regista che di bombe ne potrebbe sganciare parecchie nel corso della sua carriera. Con questo secondo sforzo creativo Bi Gan non rimette in discussione nulla, non torna sui propri passi, anzi. Potendo contare su un budget più cospicuo, degno di tale nome, in pratica s’ingegna di girare una sorta di remake del suo lavoro di tre anni fa, rifacendolo da capo, stavolta come voleva lui.
Non pochi furono infatti i limiti imposti dalla carenza di denaro, per un regista che ha idee sublimi ma oggettivamente difficili da realizzare senza certe risorse; eppure questo non gli impedì di integrare quel notevole pianosequenza di quaranta minuti, girato con una reflex (la Canon 5D Mark III). Ed era già lì il talento, una concezione piuttosto precisa di cinema, che non può che colpire a dispetto della povertà di mezzi. In Long Day’s Journey Into Night la situazione si ribalta: non solo gli strumenti ma anche attori professionisti, insomma, un altro livello.
Ma Bi Gan, già prima lo si è intravisto, mentre ora è una certezza, è ossessionato da quei luoghi, quelle suggestioni, tanto da volerci tornare, esplorarle ancora più a fondo, il che comporta un tipo di ricerca ben diversa dal mero vaglio di una location. Il regista ha bisogno del contatto fisico con quell’ambiente poiché solo a tali condizioni può mappare ciò che avverte in relazione allo stesso: sentimenti, sensazioni, intuizioni e chi più ne ha più ne metta. E quando camminare per le vie strette di una spettrale Kaili non si rivela più sufficiente, ecco allora spiccare il volo, letteralmente, osservare dall’alto quel villaggio composto di cemento e natura, illuminato in maniera stupenda, così onirico eppure così stranamente familiare. Kaili, espressione abusata ma tant’è, è un luogo dello spirito; uno di quei posti che si possono pure visitare… ma che per vivere bisogna andarci in maniera diversa. In sogno.
È esattamente ciò che fa Luo Hongwu: dopo dodici anni di assenza torna lì, a Kaili, e senza nemmeno saperlo vi si perde. Fagocitato non tanto dagli spazi fisici ma, appunto, dai suoi ricordi, ma ancora di più da ciò che elabora suo malgrado in relazione a quei ricordi. Long Day’s Journey Into Night è poesia, perciò mistero; non va illustrato, “spiegato”. Che la sua ricerca abbia a che vedere con una donna, Wan Qiwen, non sfugge. La domanda è: quante volte la incontra? E in che forma? Come nei sogni, in cui chi sogna ha chiare le dinamiche purché non venga chiamato a darne ragione. Quanto Bi Gan riesca a spingere in avanti il proprio linguaggio è difficile descriverlo, o per lo meno, quanto riesca ad attingervi in maniera così pura, limpida.
Non è un caso che spiritualmente convivano in lui David Lynch, Wong Kar-wai, Hou Hsiao-hsien e Apichatpong Weerasethakul, ciascuno di loro esponenti di un tipo di cinema che si pone oltre il mero formalismo esteriore, parlando piuttosto una lingua quintessenzialmente legata ai contenuti, con cui fa un tutt’uno. Bi Gan è onesto finanche nell’approccio, non nega nulla, anzi offre gli attrezzi adatti per sapersi orientare. Ad una prima parte, infatti, in cui il campo viene sgomberato, lo spettatore preparato, in cui la ricerca è ancora affare della realtà, pur con le immancabili licenze, segue una seconda in cui il pieno potenziale deflagra come una bomba atomica, trascinando con sé ogni cosa. Luo Hongwu entra in un sala cinematografica e prende posto; indossa un paio d’occhiali, gli stessi attraverso i quali pure noi da lì in avanti siamo chiamati a vedere. Un’esperienza perciò mediata da un supporto in più, che ci fa sprofondare per circa un’ora in uno stato tra la fase REM e la veglia, consapevoli ma inermi, catturati, risucchiati da questo armonioso girovagare del protagonista, tutto rigorosamente in un magico pianosequenza.
Non c’è altro modo, altra porta d’ingresso a quel reame così vivido eppure così inafferrabile. E qui continuano ad emergere, prepotenti, i punti di contatto con il film d’esordio: come in Kaili Blues, infatti, è uno scooter a trasferire il protagonista nell’altra dimensione, di nuovo un giovane, stavolta proprio un ragazzino, novello Caronte più che Virgilio. La convergenza tra tecnica e poesia in Long Day’s Journey Into Night tocca in questa fase delle vette di eccellenza che non hanno a che vedere con la mera competenza, la padronanza appunto del sapere tecnico, che pure presuppone: è opera dello spirito, che solo ha accesso a certi territori. Ogni incontro, e ce ne sono svariati sia prima che dopo l’avere sconfinato, tanto da scandire lo sviluppo o forse è meglio dire il prosieguo del viaggio; dicevamo, ogni incontro è un passo in più verso il cuore o forse l’apice del mistero, il suo guardarlo così per com’è e lasciarsene trasformare. E con che cosa ha a che fare il mistero se non con il misticismo? Quel mistero la cui funzione è consentirci di comprendere ogni cosa mediante le cose che non si capiscono.
Risuonano, alte, dunque, quelle altre parole di Chesterton: «Il misticismo tiene gli uomini sani. Fintanto che c’è il mistero, c’è la salute; distrutto il mistero, nasce la malattia. L’uomo qualunque è sempre stato sano perché è sempre stato un mistico. Ammetteva il crepuscolo». Ed esattamente questo è Long Day’s Journey Into Night, un’opera crepuscolare che ci mantiene sani in un mondo che spesso, in maniera del tutto naturale, fa di tutto per debilitarci. Non si tratta di essere inutilmente altisonanti, darsi un tono attraverso un presunto entusiasmo. Il secondo lavoro di Bi Gan è luce, quella che non acceca ma rende consapevoli. A patto di volerla seguire.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”10″ layout=”left”]
Long Day’s Journey Into Night (Cina, 2018) di Gan Bi. Un film con Wei Tang, Sylvia Chang, Meng Li, Jue Huang e Yongzhong Chen. Un Certain Regard. Distribuito in Italia da Movies Inspired.