Cannes 2018, Capharnaum: recensione del film di Nadine Labaki
Festival di Cannes 2018: i bambini rispetto alla Legge e alla cultura libanese. Nadine Labaki propone un argomento forte, nell’ambito del quale riesce a destreggiarsi ma non senza qualche sbavatura
Quando il giudice chiede al piccolo Zain quali sono le sue richieste, la risposta è spiazzante quantomeno: «voglio denunciare i miei genitori per avermi fatto nascere». Una frase potente, che assesta un pugno tremendo. Oggi un’uscita del genere la si potrebbe leggere sui social che bazzichiamo, magari scritta da uno dei nostri contatti con una propensione verso certo tipo di humor, generando tutt’altro effetto; da questa fattispecie apparentemente banale emerge la distanza tra quel mondo, il Medioriente, e il nostro. Annotazione necessaria, perché la vicenda narrata da Nadine Labaki prende di mira una cultura specifica, un’area del mondo le cui dinamiche sono, per l’appunto, avulse da tutto ciò che crediamo di sapere noi occidentali.
Capharnaum si apre in un’aula di tribunale, dove Zain deve sostenere un processo a suo carico per aver accoltellato un uomo: «quel figlio di puttana», aggiunge Zain, e lo ripete anche dopo aver ricevuto un rimprovero dal giudice. All’udienza intervengono anche i genitori e una donna etiope, Rahil. Da lì in avanti si tratta di ricostruire gli eventi che hanno portato a quel punto, e come le varie storie s’incrociano. La famiglia di Zain è di quelle numerose, eppure le condizioni sono pessime: nessuno dei due, padre e madre, lavorano, campando di espedienti, tipo farsi fare ricette per delle medicine che poi utilizzano in altro modo. I figli sono abbandonati a sé stessi, lasciati per casa con una noncuranza disarmante. Zain sogna di portare la sorella da un’altra parte, non sa dove ma lontano. Il motivo è che presto andrà sposa ad un adulto, anche se lei ha appena undici anni. Manco a dirlo, il tutto è stato combinato dai genitori, che in cambio ricevono una sorta di dote. Quando il piano di scappare insieme fallisce, Zain decide di scappare.
In questa seconda parte la Labaki dà il meglio, denotando una maturità che non lascia indifferenti. Le peripezie del bambino sono incredibili, gliene accadono di ogni; tanto da finire a casa di Rahil, che sta facendo di tutto pur di comprarsi un documento e scappare dal Libano insieme al figlio Yonas, il quale, diversamente, le verrebbe sottratto. Il Libano è una prigione a cielo aperto, un ambiente tremendo, opprimente, in cui il degrado regna sovrano e a più livelli. È un posto da cui, non per nulla, si cerca di fuggire, senza nemmeno sapere cosa si troverà fuori: intanto basta uscire. Zain diventa sostanzialmente la balia di Yonas, mentre la madre va a lavorare. Le scorribande dei due sono certamente, per tenuta e scrittura, la parte migliore del film. Non solo perché i bambini sono bravissimi, ma perché la Labaki li mette in condizione di esserlo, anzitutto sapendo come filmarli.
Si è parlato e si parlerà di «pornografia dei sentimenti», o qualcosa di questo tipo, espressione che, oltre che claudicante di per sé, non si adatta così bene a Capharnaum. È innegabile che la Labaki indugi parecchio sulle condizioni estreme di questi bambini, calandoli in situazioni al limite, ma non c’è quella gratuità facile per colpire allo stomaco e poi farla franca. È sul finire, semmai, che emergono certi quesiti terribili, ed è lì che si può avere da ridire su quanto fatto dalla regista libanese; prima no, sia perché tutto fila liscio, sia in virtù della verosimiglianza, dovuta ad una messa in scena frutto del lavoro che è tutto fuorché quello di una sprovveduta. Si lasci stare la furbizia, perciò, ché piuttosto l’impressione è che alla Labaki a questi bambini ci tenga e quindi li rispetti, così come in realtà pare amare quel Paese che critica.
Uno degli aspetti più significativi è che, date le condizioni, si sarebbe potuto spingere sulle istanze, ossia la denuncia, rimanendo però un’opera impegnata tout court. Al contrario, Capharnaum qualche merito ce l’ha pure rispetto a un discorso interno al mezzo, proprio perché, signori miei, va detto, a tratti il film registra impennate estemporanee che col caso non hanno proprio nulla a che vedere. Certo, la sensazione è che vi sia un livello della discussione che a noi, così lontani, vi è per certi versi precluso; si commetterebbe un errore, per di più grossolano, a recepire certi sviluppi adottando il nostro modo di pensare, ovvero tutto quel cascame culturale che ci portiamo dietro in quanto abitanti dell’Occidente.
Se riuscissimo a cogliere ogni singola sfumatura forse Capharnaum tenderemmo a ritenerlo addirittura più forte, certi suoi appunti ancora più pertinenti. Questo è ciò che forse ha potuto sviare qualcuno portandolo/a a pensare che la Labaki abbia “giocato sporco”, dato che la parte più accessibile è quella dei due bambini che vanno girovagando per quelle vie sporche e pericolose, esposti alla qualunque. Non si discute, questo è film che sta dalla parte loro, in tutto e per tutto, puntando il dito contro gli adulti, grandi assenti/presenti che si limitano a relazionarsi con i più piccoli in base al rispettivo stato: se sei un giudice, allora è nulla più che un imputato; se sei un genitore, allora è una pertinenza; se sei un “imprenditore”, un’occasione. Seguendoli e ponendoceli di fronte a quel modo, la Labaki cerca di farci capire che si tratta anzitutto di bambini, e che in quanto tali non hanno eguali, non debbono essere trattati semplicemente come tutti gli altri (specie nel senso di male come tutti gli altri).
Ciò che non convince, per adoperare un eufemismo, è l’epilogo, in cui la Labaki sembra un po’ contraddirsi, e per la prima volta lo fa col solo intento di far fondo a tutto il potenziale emotivo. Lascia peraltro perplessi la frecciata lasciata lì, en passant, sul fatto di non fare figli, di lasciare intendere (non asserirlo, attenzione) che la prole si genera solo se ci sono le condizioni economiche per farlo. Terreno scivoloso, non importa quanto buon senso vi sia o meno in tale considerazione. Qui mi pare che prevalga la pancia, facendo sì che l’incisività dell’argomentare, fin lì tutto sommato solido, venga meno. Quando infatti il cinema si prodiga in soluzioni ne esce quasi sempre con le ossa rotte, un pesce fuor d’acqua; la sua è una vocazione a mostrare, certo, non in maniera neutra ed imparziale, deriva peraltro nemmeno possibile, ma pur sempre operare nell’ambito di ciò che è, non di ciò che si vorrebbe. Sono pochi coloro che riescono a sconfinare, facendo sì che il messaggio filtri senza che ce ne si accorga. La Labaki non è diretta, questo magari no, ma se si fosse fermata un attimo prima Capharnaum ne avrebbe ulteriormente guadagnato, anche perché già così, senza la nota finale, solleva questioni che fanno venire le vertigini.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
Capharnaum (Libano, 2018) di Nadine Labaki. Con Nadine Labaki, Zain Alrafeea, Yordanos Shifera, Treasure Bankole e Fadi Youssef. In Concorso.