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Cannes 2018, The Wild Pear Tree: recensione del film di Nuri Bilge Ceylan

Festival di Cannes 2018: l’ultimo film di Ceylan non può che essere opera di un maestro, che trae Cinema dalla Letteratura in maniera unica e preziosa

pubblicato 19 Maggio 2018 aggiornato 27 Agosto 2020 20:09

Sinan torna a casa, un villaggio non lontano dal porto di Çanakkale, dopo essersi laureato. Nessuna festeggiamento, l’atmosfera mesta, dei freddi complimenti sono il massimo che riesce a racimolare. Come se quel traguardo fosse non l’inizio bensì la fine di tutto, da quel momento in avanti svegliarsi e cominciare a vivere anziché il trascinarsi spensierato tipico della giovinezza. Non si tratta tuttavia solo di lui; a casa la situazione è pesante, e per accorgersene non ha nemmeno bisogno di entrarvi: il proprietario di un bar lo saluta, cincischia un po’, poi, un attimo prima di salutarsi: «potresti ricordare a tuo padre che mi deve dei soldi?».

Idris, il padre, è un maestro, insegna alle elementari. Da qualche tempo a questa parte pare essere caduto nel vizio dei cavalli, a causa del quale ha accumulato prestiti su prestiti, perdendoci, prima ancora che i soldi, la faccia. L’aria è tesa dentro le mura domestiche ma l’unico a far finta che non stia succedendo nulla è proprio lui, Idris, che continua a far scherzi e manifestare un’insolita allegria: «un uomo arrabbiato diventa il peggior nemico di sé stesso», dirà a un certo punto. The Wild Pear Tree certifica l’abilità di Nuri Bilge Ceylan, unica e preziosa, di riuscire come quasi nessun altro a tirare fuori Cinema dalla Letteratura. Con Il regno d’inverno c’era già stato il passaggio ad una sceneggiatura più verbosa, composta di episodi, ossia una serie di lunghe conversazioni: in quest’ultimo suo lavoro il regista turco si spinge addirittura oltre.

Toccando di tutto, dalla religione alla fede (sì, son cose diverse), passando per l’Arte contrapposta alla fama, la filosofia e via discorrendo. Ceylan nei suoi film gioca sempre a carte scoperte, non ha bisogno di blandire nessuno: se non si riesce ad “entrare” nella prima mezz’ora, beh, il rischio è di non riuscirci affatto. Quelle proposte sono infatti esperienze per certi versi impegnative eppure mai provanti, dato che, al contrario di quanto si possa immaginare, al regista turco non interessa contrariare lo spettatore, bensì veicolare concetti, mai dimentico però dei propri personaggi. Tutti vivi, posti alla giusta distanza, né troppo intimi né troppo lontani.

The Wild Pear Tree è opera di un maestro, di quelli che coltivano una padronanza peculiare di un modo di fare cinema che è il loro e di nessun altro. Sinan viene calato pressoché in tutti i più significativi ambiti della vita e vederlo rispondere agli input che gli arrivano, a volte proprio assalendolo, ci rincuora, ci dice che davanti abbiamo qualcuno e non qualcosa. Quando incontra una sua vecchia fiamma al pozzo gli echi sono quelli della parabola evangelica della Samaritana (al pozzo, appunto), sebbene chiaramente gli sviluppi siano differenti e si approdi dunque altrove. Sinan scopre che la ragazza sta per sposarsi e cerca di non fare una piega, anzi, preferisce calpestarsi pur non sembrare un adolescente, di fare l’adulto, l’uomo. La ragazza se ne accorge e questo, anziché infastidirla, la stimola, finché non arriva quel bacio che Ceylan inquadra con un’innocenza quasi naive, ma che dice molto proprio perché non c’è nulla di troppo, è tutto lì.

Una sola però è la costante, ossia, volente o nolente, la figura del padre. Ceylan può contare su un ventaglio di fonti notevole a cui attingere, e non ha mai disdegnato le Scritture, così come il Corano ovviamente. Uno dei leitmotiv, forse addirittura il più devastante, è la lotta sovrumana di Sinan nel ribaltare l’antico «le colpe dei padri ricadranno sui figli». Quasi un principio inscritto in natura, impossibile per l’uomo da sovvertire, quasi non ci rendiamo conto di questa radicale battaglia che si consuma sotto i nostri occhi, e che sta alla base di tutti i conflitti di Sinan: sia che si mostri indisponente con uno scrittore di successo, con quella spocchia giovanile sotto la quale non c’è nulla o quasi, perché lui stesso aspira a pubblicare libri e diventare famoso per mezzo loro; sia che si parli di vita con due amici, uno scontro acceso solo da un punto di vista dialettico, nel corso del quale una parte sostiene che non esiste Morale senza Dio, mentre l’altra prova a dimostrare che per essere morali non c’è bisogno di alcuna divinità. Che l’ateismo sbandierato da Sinan abbia a che vedere con il suo rapporto col padre? Oppure è proprio il rapporto col padre a risentire del suo ateismo? Domande che si possono appena sfiorare, ed infatti ci viene sottoposto quanto basta a malapena per porcele, come è giusto che sia.

Il tempo passa, anzi, trascorre. Sinan è ancora alle prese col suo libro meta, che finalmente va in pubblicazione, giusto il tempo di aver raccolto il denaro sufficiente per potersi finanziare da solo quest’impresa. Come quasi sempre accade, la spocchia del nostro altro non è che l’involontario riflesso della della sua insicurezza, la stessa che viene corrisposta da un’indifferenza totale verso il proprio lavoro, realtà che Sinan accetta, pure questa, come inevitabile. E qui si torna alla tragedia, all’ineluttabilità del proprio destino, altra traccia a cui Ceylan ha fatto ricorso in passato; eppure nella sua rassegnazione non c’è nulla di nobile, solo il lasciarsi vivere da fuori, adagiandosi su eventi che non cambiano perché lui non è ancora disposto a cambiare, a seguire il consiglio di Sant’Agostino, ossia quello di tornare dentro di sé per scoprire la verità.

Tutta la parabola di The Wild Pear Tree si sostanzia in questa indagine, ossia la sincera, profonda ricerca non di una verità ma della Verità. Verità che è espressa in maniera luminosa, come in parte già accennato, proprio nei protagonisti cui dà vita Ceylan, che non sono come ce li aspetteremmo qualora ci fermassimo a guardare profili simili al cinema. Brucia in loro quella forza che tanti autori vorrebbero infondere nei loro personaggi, risultato che raramente si riesce però a conseguire. La rabbia di Sinan, la sua inquietudine, sono perciò complementari alla placidità di Idris, la sua consapevolezza. È questo il lascito di un padre il cui figlio, giustamente, non gli ha mai perdonato nulla. Finché il giovane non scopre l’uomo, ed allora finalmente, all’improvviso, tutto gli è più chiaro: da quel momento sa come e perché valga la pena continuare.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]

The Wild Pear Tree (Ahlat Agaci, Turchia, 2018) Nuri Bilge Ceylan. Con Hazar Ergüçlü, Murat Cemcir, Ahmet Rifat Sungar ed Ercüment Balakoglu. In Concorso.

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