Venezia 2018, The Nightingale: recensione del film di Jennifer Kent
Festival di Venezia 2018: titolo destinato a dividere, l’opera seconda di Jennifer Kent da un lato ne conferma le capacità nel sapersi districare all’interno dei generi, dall’altro deraglia per l’approccio manipolatorio alla vicenda
Clare (Aisling Franciosi) accudisce il suo bimbo di pochi mesi, mentre col marito si scambia amorevoli sguardi e dolci carezze. Parlano gaelico, dunque sono irlandesi, giunti chissà come presso quelle lande sconfinate dall’altra parte del mondo, in Tasmania. In verità Clare, si capisce poco più avanti, è un’ex-galeotta, liberata da un ufficiale britannico (Sam Claflin) solo perché quest’ultimo invaghito della giovane. Non a caso non intende farle lasciare quella sorta d’avamposto: per tre mesi le ha promesso di firmarle quel foglio che la renderebbe libera sul serio, un becero pretesto per tenerla buona e continuare ad approfittarne.
I primi venti minuti di The Nightingale sono un pugno allo stomaco, l’alternanza tra la dolcezza della giovane, il suo essere madre, la sua voce appunto da usignolo (come da titolo) da una parte, mentre dall’altra l’aberrazione di un gruppo di soldati e dei loro superiori: sporchi, rozzi e beoni, in altre parole feccia prestata al servizio di Sua Maestà. In un primo momento il sergente Hawkins sembra essere l’unico a darsi un contegno, sebbene, come ci viene mostrato nel giro di poche, terribili sequenze, sia in realtà una sorta di satanasso travestito da uomo.
Aleggia in queste prime fasi una cappa opprimente, tangibile l’incombere di episodio, un evento che segnerà il punto di non ritorno. Segni premonitori, per così dire, che si concretizzano in circa sette minuti di una brutalità difficile a descrivere: dopo che il marito di Clare, stanco delle vane promesse, si rivolge minaccioso ad Hawkins, quest’ultimo non ci vede più e nel giro di quei pochi minuti sopra evocati distrugge nella maniera più truce che è possibile concepire il mondo di Clare, non lasciandole più nulla, altro che la libertà. Qui The Nightingale cambia registro, o per meglio dire, diventa ciò che è, ossia un revenge movie cattivo e sgangherato più del dovuto.
Assecondando gli stilemi del western, parte la caccia ai danni del sergente britannico e i suoi uomini, complici del misfatto, in un avvicendarsi di situazioni tenute in piedi per lo più dall’evidente desiderio di esporre una tesi. Non si può leggere diversamente il modo in cui Jennifer Kent va componendo il quadro narrativo, a partire dal compagno di viaggio che pone accanto ad una Clare sconvolta, e ci mancherebbe: si tratta di Billy (Baykali Ganambarr), giovane aborigeno che, in quanto tale, vive da schiavo in casa. Lo scenario, a quel punto, li vede procedere soli contro tutti all’inseguimento, lei donna, lui nero, due categorie che, in un inizio ‘800 da espansione imperiale, sono a rischio per definizione.
La giri come si vuole, è difficile pensare che il contesto tratteggiato in The Nightingale sia slegato, in tutto o anche solo in parte, dall’attualità, da tutta una serie d’istanze che mai come in questi ultimi anni possono contare su un’esposizione mediatica senza precedenti. Gli strumenti attraverso i quali la Kent s’accosta a tutto ciò rimandano inequivocabilmente ad un approccio di stampo manipolatorio, che informa non solo alcune singole scene, le più scabrose, tra stupri e violenza inaudita, bensì l’intera struttura di una sceneggiatura imperniata su di esse, quelle scene appunto forti, rispetto alle quali tutto il resto è relegato a contorno.
La comprensione dei moti, interiori e non, che stanno alla base di questa scelta da parte della Kent non può né deve indurre a ritenere la dinamica sin qui evocata l’unica possibile, quasi che la delicatezza e l’importanza di ciò che nemmeno troppo velatamente si denuncia siano sufficienti, anzi, addirittura quasi esigano misure del genere. Al contrario, da questa parte si tende a ritenere per certi aspetti finanche svilente che tale questione, così urgente e il cui ragionarci diviene ogni giorno più pressante, possa essere veicolata, anche solo mediante la finzione, in modo così netto, liberatorio. Un argomentare di pancia le cui ripercussioni si notano non soltanto rispetto alle implicazioni se vogliamo politiche, bensì anche ad un livello più neutro, cioè quello che ha a che vedere col film a tutto tondo.
Come appurato già al tempo di Babadook, Kent dimostra di sapersi districare con una certa padronanza nell’ambito del genere, o per meglio dire dei generi, visto che questo suo western a sprazzi vira persino all’horror, non soltanto, banalmente, per le sopracitate scene violente, in alcuni passaggi proprio splatter, bensì pure in considerazione di certi inserti onirici apposti con criterio – senza contare il formato, quel 4/3 che induce alla claustrofobia, misura appropriata poiché a livello sensoriale non vi è altro modo di fare esperienza di questa vicenda, così estrema.
Troppo però si fa leva sulla pancia dello spettatore, quasi che The Nightingale mirasse preventivamente ad un suo pubblico e quello soltanto, tagliando fuori tutti gli altri. Target privilegiato, unico con il quale instaurare una comunicazione donandogli un’occasione per la catarsi, attraverso cui incanalare una seppur giusta, sacrosanta indignazione. Trattasi di una componente sulla quale non si può proprio sorvolare, e proprio in funzione di quanto espresso sopra circa il suo essere così onnipervasiva, decisiva ai fini della costruzione di ogni singolo avanzamento in The Nightingale, finendo inevitabilmente col limitarne la scrittura, che su tale limite ha dovuto svilupparsi, in maniera altrettanto inevitabile, monca, o per lo meno deficitaria.
Lascia ancora più l’amaro in bocca che il secondo lavoro della Kent si sia risolto così, proprio alla luce dei meriti cui abbiamo accennato, il suo un cinema competente, che quando scopre i muscoli restituisce una durezza e una crudezza le quali, incanalate attraverso una storia in cui a prevalere fosse il gusto del racconto – senza per forza alienarsi in toto da qualunque altra aspirazione, ci mancherebbe – aggiungerebbero dei tasselli mica da poco al mosaico dei film di genere e non solo. Invece lascia perplessi il fermo rifiuto di qualsivoglia sottigliezza, un privarsi così perentorio di forme meno dirette anche se non necessariamente più concilianti per percorrere questa strada. In attesa che tale prova venga superata, non resta che prendere atto del passo indietro da parte di una regista che al debutto ne aveva fatti tre in avanti.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
The Nightingale (Australia, 2018) di Jennifer Kent. Con Aisling Franciosi, Sam Claflin, Baykali Ganambarr, Damon Herriman, Harry Greenwood, Ewen Leslie, Michael Sheasby e Charlie Shotwell. In Concorso.