Torino Film Festival: La nascita delle piovre, A Thousand Years of Good Prayers, Viva, Garage
Quarto resoconto dal Torino Film Festival. Quando t’innamori per la prima volta, quando provi un’attrazione forte, dentro di te è come se nascesse una piovra, che con i suoi tentacoli si attorciglia dentro di te. Così Céline Sciamma, la regista ventisettenne del bellissimo Naissance des pieuvres (da noi La nascita delle piovre), spiega il significato
Quarto resoconto dal Torino Film Festival. Quando t’innamori per la prima volta, quando provi un’attrazione forte, dentro di te è come se nascesse una piovra, che con i suoi tentacoli si attorciglia dentro di te. Così Céline Sciamma, la regista ventisettenne del bellissimo Naissance des pieuvres (da noi La nascita delle piovre), spiega il significato del titolo del suo film, incentrato sulla figura di tre adolescenti alle prese con i primi sentimenti.
E’ un esordio che lascia a bocca aperta: per la capacità di analizzare i temi, per pulizia, per sicurezza. E chissenefrega se l’amore che nasce fra le due protagoniste è omosessuale: la capacità della regista è quella di spiegare l’amore dal punto di vista femminile, indifferentemente dal fatto che sia rivolto verso una persona dello stesso sesso.
Poi la storia della terza ragazza, la simpatica cicciotta amica della protagonista, è più spolpata e banale, e la sua è una figura che spesso resta macchiettistica. Ma è un dettaglio di poco conto, perchè la trama principale non dà tregua e non fa mai calare l’attenzione dello spettatore. Grande padronanza dei mezzi, con un uso di colori e musiche da far invidia a registi navigati. E, soprattutto, colpo di fulmine immediato per Adele Haenel: bellissima e incredibilmente superba.
Si è poi visto in anteprima il nuovo film del regista orientale più venduto ad Hollywood, quel Wayne Wang che tanto sembrava perso tra amori a cinque stelle e amici a quattro zampe. Va bene, il suo A Thousand Years of Good Prayers (girato quasi in conteporanea con The Princess of Nebraska, che si vedrà a Torino in questi ultimi giorni) rivela un autore ancora non finito, ma l’amaro in bocca resta.
Perché far durare il film un’ottantina scarsa di minuti e fare una serie di rivelazioni in cinque? Perché Wang non ha il coraggio di lasciare alcune cose non dette, e sembra avere la furia di dover dire tutto, di dover colmare qualsiasi dubbio -se ce n’è- nello spettatore? Il film presenta le tematiche tanto care al regista de Il circolo della fortuna e della felicità, in primis quella della tradizione che si scontra con la modernità, delle generazioni, e dell’America in contrasto con la Cina.
Una storia di padri e figli, ancora, per un film che ha un certo stile e non presenta pecche nè dal punto di vista dei dialoghi nè dal punto di vista registico (per fortuna Wang non ha dimenticato il mestiere…). Adatte le prove di Henry O e Faye Yu (a proposito: non si sono viste ancora attrici orientali brutte; dove sono!?), soprattutto il primo, che si offre con gentilezza anche in scene ironiche. Peccato davvero per il velocissimo finale.
In concorso come Naissance des pieuvres troviamo poi l’irlandese Garage di Lenny Abrahamson, un piccolo film che nel suo si fa rispettare. Abbiamo un altro personaggio assurdo, al limite dell’alienato, come tanti se ne sono visti in questa edizione del festival, che lavora in una pompa di benzina: ligio al lavoro, Josie obbedisce senza opporre resistenza al suo capo, un ex-compagno di scuola che, secondo lui, l’avrebbe aiutato proprio dandogli il lavoro.
Quando il capo decide di tenere aperto il servizio anche durante il week-end, Josie si vede affiancare David, un quindicenne che lo aiuterà proprio in quei pochi giorni della settimana. Dopo il gelo iniziale da parte del ragazzino, i due diventano amici e la situazione si fa più semplice. Finché, per colpa dell’ingenuità di Josie, la situazione si ribalta in modo inaspettato e crudele. Il film ha ritmo, ha ironia, ma ha anche una sincera visione disillusa e cattiva della vita: ciò che capita a Josie, accusato “ingiustamente” di qualcosa che in effetti ha commesso, sarebbe piaciuto tanto a Von Trier.
Magnifico Pat Shortt, un Josie che cerca di relazionarsi come può col mondo, di combattere la sua timidezza, di non sentirsi fuori luogo, di accettare anche gli insulti più gratuiti e cattivi. Come altri film piccoli presentati a Torino, anche Garage aiuta lo spettatore a disintossicarsi con facilità dalle mega-produzioni, dai prodotti inflazionati e surgelati e da nomi fin troppo pompati da pubblicità e riviste.
E passiamo ad un vero film culto di questa edizione: Viva di Anna Biller. Che non sfigurerebbe in un Grindhouse 2, se fosse incentrato non più sull’horror ma sui temi della sexploitation. La Biller, che ha all’attivo qualche corto e mediometraggio, esordisce con una parodia-omaggio ai soft-porno che tanto andavano di moda fra i patiti negli indimenticabili anni ’70.
L’operazione, dal punto di vista tecnico, si avvicina più a quello di Planet Terror di Rodriguez che a Death Proof di Tarantino (il vero film teorico dell’anno): ricostruisce passo per passo un vero film della sexploitaion, dalla fotografia iper-colorata alle ambientazioni, dai dialoghi scritti a volte volutamente in modo pessimo ad alcune battute memorabili. Ma, attenzione, lavora moltissimo anche sulla recitazione: che è orgogliosamente invedibile. Come se gli attori aspettassero, mentre sono ripresi, un suggerimento, un gobbo che è stato perso, e la macchina da presa non possa fermarsi per mancanza di pellicola.
La Biller, nonostante le due ore potessero essere qua e là davvero accorciate, ha il coraggio di saper dire la sua su temi importantissimi (la femminilità e il femminismo -che non sono la stessa cosa-, la rivoluzione sessuale e la presunta voglia dell’uomo di dominare la donna) in modo brillante e originale. Dal punto di vista tecnico non si può dire nulla. Il resto lo deciderà il pubblico, se mai il film si vedrà in sala (sè, figurati) o in dvd. Fatto sta che siamo davanti ad un oggetto strano, forse non per tutti: e questo è un pregio.