Cannes 2019, Atlantique, recensione: fiaba contemporanea tra realismo e magia
Festival di Cannes 2019: fiaba contemporanea che cavalca il tema del doppio per affondare nella cultura di un’intera regione
Comincia col sole Atlantique; accecante, per poi consegnarsi ad un buio incalzante, che non a caso non molla più il film di Mati Diop fino quasi alla fine, quando torna giorno. Intendiamoci, non che la vicenda sia ambientata solo di notte; per lo più, certo, ma il discorso è senz’altro più complesso di così, e l’oscurità evocata opera su un altro livello.
Souleiman ed il gruppo di persone che con cui sta lavorando alla costruzione di un grattacielo in quel di Dakar è stanco di non ricevere la sua paga: sono oramai tre mesi ed il titolare dell’impresa ancora si rifiuta. L’unico sollievo del giovane è Ada, una diciassettenne di cui s’innamora e con cui intrattiene un principio di relazione; principio, sì, perché di lì a poco Souleiman decide, insieme ai suoi compagni, d’imbarcarsi per la Spagna in cerca di quel briciolo di dignità che lì in Senegal non hanno, ossia un lavoro, ovviamente pagato.
Ada ne soffre maledettamente, quasi non riesce a crederci; anzi, non ci crede. Malgrado la brevità di quel rapporto clandestino, fin lì verrebbe da dire quasi platonico, la giovane non vuole arrendersi all’idea di essere stata abbandonata, dunque tradita. Souleiman tornerà. Deve tornare. Nel frattempo, tuttavia, per una ragazza di quell’età non sembrano esserci molte strade, se non quella di unirsi alla corte di mogli di un tizio facoltoso, che trascorre in Senegal tre mesi dell’anno, il resto in Italia. L’idea la devasta. Sa Ada essere non tanto la soluzione migliore, per certi versi l’unica, perciò acconsente. Il giorno in cui si è lì lì con l’ufficializzare il tutto, però, accade qualcosa di strano: il letto di nozze prende a fuoco.
Da qui in avanti Atlantique ingrana la quarta, cambiando pelle e rivelando le sue svariate anime. Non solo quella di una storia d’amore impossibile, no, perché calata in quella che è una vera e propria ghost story, a tema possessioni peraltro. Qualcosa francamente d’impensabile stando ad una prima parte che invece procede sui binari di un realismo da denuncia piuttosto classico; mentre invece, in quelle sequenze, la Diop sta solo seminando in vista di ciò che la vicenda diverrà.
Avete presente il datore di lavoro che si rifiutava di corrispondere la paga agli operai, menzionato all’inizio? Ebbene, all’improvviso costui rientra nella sua lussuosa villa trovandovi all’interno un gruppo di ragazze con gli occhi spiritati. Non aggiungiamo altro, ché questo è già troppo. Resta tuttavia da capire chi è stato ad appiccare l’incendio nella stanza da letto, e per questo viene incaricato un promettente detective, Issa, che in men che non si dica riesce ad avere già una pista. Anche mistery perciò, più che noir, dato che il poliziotto, senza rendersene conto, si ritrova ad indagare su un caso che implica il soprannaturale. Emerge qui quel suo farsi fiaba di Atlantique, ricollegandosi al tema del doppio mentre fa luce su alcuni aspetti significativi della cultura locale.
Questo immettere elementi tratti dal mito e dalla religione era qualcosa che poteva senz’altro ritorcersi contro il film, un atto di coraggio che muta presto in sconsideratezza. Eppure la Diop riesce stranamente ad integrare tale registro al tenore così spiccatamente realistico, quasi piatto perfino, su cui in fondo poggia tutto. Lavorando sui corpi in maniera molto fine, esponendoli appena, restituendo perciò quella materialità che lo strato spettrale sovrapposto rischia in qualche modo di coprire. Quei corpi neri, madidi di sudore, preda di febbri inspiegabili, che si muovono trascinandosi, una coreografia quasi macabra, che perciò ha a che fare anche col sacro.
Un modo intelligente, peraltro, di ridare alla donna il posto che merita, di chi insomma è chiamata a rivendicare sul serio, mica slogan, non soltanto ciò che le spetta in quanto donna bensì in quanto persona. Eh sì, perché qui la donna non è portavoce d’istanze, per così dire, esclusivamente femminili/femministe: la donna è la chiave di volta per accedere a quel mistero che, una volta avvicinato, risolve già buona parte del problema. Prima di tornare a concedersi a quel mare più e più volte inquadrato, nota romantica in mezzo ad altre, che fa di Atlantique uno strano ma suadente oggetto, limitandosi ad assestare, bene, pochi colpi giusti al momento giusto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
Atlantique (Francia, 2019) di Mati Diop. Con Ibrahima Mbaye, Abdou Balde, Mame Bineta Sane, Aminata Kane, Traore, Mbow, Nicole Sougou, Diankou Sembene e Babacar Sylla. Concorso.