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Cannes 2019, Sorry We Missed You, recensione: implicazioni del post-capitalismo senza astrazioni

Festival di Cannes 2019: un Ken Loach che non fa sconti allo sfrenato neoliberalismo imperante, partendo dal dato che più conta, la persona

pubblicato 17 Maggio 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 19:19

Ricky (Kris Hitchen) ha una bella famiglia, moglie e due figli, tifa Manchester United ed è in cerca di lavoro. Quando finalmente lo trova non gli sembra vero; si tratta di una multinazionale che opera nell’ambito delle consegne, un corriere insomma. Il responsabile, parlantina sciolta e risoluta, va magnificandogli le opportunità offerte da un’occasione del genere, il fatto di essere padroni del proprio lavoro e tutto il cucuzzaro che oggi chi la ventura di girare per colloqui ha l’onere di doversi sorbire. E Ricky se la beve tutta quella sbobba, fino all’ultima goccia, tanto che di ritorno a casa, eccolo lì a convincere la moglie a vendere l’auto pur di potersi lui permettere un furgone, il cui acquisto, manco a dirlo, è a carico suo.

Sorry We Missed You è il solito Ken Loach, solo più diretto. Il che, s’intende, significa pure più duro nell’assestare colpi che fanno male. La sua, anche stavolta, non sarà l’ultima parola su quell’incubo infernale che usiamo definire con la dicitura «essere competitivi costi quel che costi», ma funge senz’altro da discreto compendio. Il regista britannico non astrae mai, ancora meno stavolta; parte dal dato umano, da quelle persone che si ritrovano invischiati in situazioni che loro stesse, a volte maldestramente, hanno contribuito ad innescare. Contributo ad ogni modo informato, perché di base c’è sempre quell’esigenza lì, ossia restare a galla, accettare di fare lavori che mai avrebbero fatto se non per far fronte alle spese, l’oramai proverbiale «pagare le bollette».

Ricky e la moglie Abby (Debbie Honeywood) debbono dividersi tra gli obblighi lavorativi e quelli parentali, due figli da crescere, i quali però stanno risentendo dell’atmosfera tutt’altro che serena: perché i problemi dei genitori sono sempre anche problemi dei figli. Liza, undici anni, non riesce a prendere sonno, anzi, ha pure cominciato a fare la pipì a letto; Seb, il maggiore, sta diventando un teppistello, non importa quanto in realtà sia un ragazzo intelligente, che potrebbe fare pressoché ciò che gli pare. Per un bel po’ però Loach si concentra sulle sessioni di lavoro di mamma e papà, la prima alle prese con anziani e invalidi che visita a casa. Abby ha una sola regola: quando hai davanti una vecchietta trattala come se fosse tua madre: d’altra parte, chi non assisterebbe la propria madre con amore vedendola in certe condizioni?

Quella di Abby è una vocazione, mica un semplice lavoro. Persona buona, dotata di una grazia particolare, ci sono scene che la vedono protagonista e che fanno stringere il cuore fino a scoppiare quasi. La vediamo lì alla fermata del bus lamentarsi con l’ente che le dà gli incarichi circa il fatto che gli imprevisti sono sempre a carico suo, anzi, è dovuto che se ne occupi, anche se al contempo le viene imposto di essere puntuale con gli appuntamenti. Ennesimo bug di un sistema, quello del lavoro, che sembra già essere in mano a delle macchine; macchine stupide però, perché davvero non riescono a mettere una pezza su certi errori di sistema. O quando all’ospedale, dopo aver mantenuto una calma olimpica per tutto il film, comincia mandare a farsi fottere chi se lo merita, sbottando a tal punto che è lei stessa a calmarsi e chiedere scusa un istante dopo: «scusate, scusate davvero… io non dico mai le parolacce». Piangendo, visibilmente mortificata. Si deve molto alla performance della Honeywood in tal senso.

Certo, non è più edificante ciò che è costretto a sopportare Ricky. Alcune di queste contrarietà sono finanche simpatiche, come il cliente e tifoso del Newcastle che, vedendogli addosso la maglia dello United, lo stuzzica e, messo all’angolo perché, insomma, tra i due club il confronto è impietoso, ricorda a Ricky il 5-0 del 20 ottobre 1996. Altre sono ben meno tollerabili, come quel tizio che non vuole esibire un documento d’identità perché per quel pacco ha pagato e basta, c’ha ragione lui, finendo infatti per essere appeso alla porta. In generale, non c’è fronte sul quale Ricky non debba battagliare, compreso col capo, il ciarlatano che gli ha fatto il colloquio, uno di quelli che ragionano solo con numeri e calci nel sedere, senza guardare in faccia nessuno quando si tratta di rispettare la tabella di marcia, perché il risultato è l’unica cosa che conta.

Ma è l’escalation che ovviamente finisce col colpire, quel pugno allo stomaco che, quando ti rialzi, non puoi fare a meno di provare rabbia e tristezza al contempo per come in generale il mondo ci sta sfuggendo sempre più di mano. E non c’è niente di gratuito in tutto ciò, anche quando si ha l’impressione che almeno un po’ Loach la mano la stia calcando. Poiché in quei personaggi, nei singoli episodi, spesso e volentieri, oltre alla disperazione, c’è anche parecchia verità, quella per esempio di una famiglia che avrebbe tutte le carte in regola per bastare a sé stessa e che vorrebbe tanto fosse possibile; ma no, perché le sollecitazioni da fuori possono essere soverchianti, insormontabili, ed allora, pur di non farsi risucchiare del tutto, l’unica è accelerare il passo, anche quando il fiato manca.

Sì, me ne rendo conto, è troppo. Non a caso il finale è una sentenza rispetto a quanto appena evidenziato, l’urlo di una categoria, la maggioranza, rimasta indietro, lasciata in disparte a spartirsi le briciole. Ken Loach, checché se ne dica, in maniera asciutta ci ricorda però che tutto ciò non è Politica, solo buon senso. E umanità.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]

Sorry We Missed You (Regno Unito/Francia/Belgio, 2019) di Ken Loach. Un film con Kris Hitchen, Debbie Honeywood, Rhys Stone e Katie Proctor. Concorso.

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