Cannes 2019, Jeanne, recensione: Dumont torna sulla figura di Giovanna D’Arco
Festival di Cannes 2019: dopo il meraviglioso musical Jeannette, Dumont torna su un terreno più convenzionale ma non per questo meno profondo e radicale
Conosco la sofferenza di chi è sta a capo nella battaglia.
Conosco l’angoscia del tradimento.
L’8 settembre del 1429, Natività della Beata Vergine Maria, l’esercito del Re Carlo si appresta a compiere una battaglia decisiva. Siamo alle porte di Parigi, e Giovanna (Lise Leplat Prudhomme), l’eroina che fin lì ha fatto registrare vittorie incredibili e insperate contro l’esercito inglese, intende strappare al nemico la Capitale. Una Giovanna da icona, tiene in mano una bandiera, quella con cui ha rivendicato la Francia prima, durante e dopo ogni battaglia; parte una canzone, in cui si canta del dolore per il sangue versato, male necessario pur di compiere la propria missione. È un momento particolare, che rimanda a quel Jeannette che di fatto era un musical, mentre qui tale vocazione irrompe molto più sporadicamente.
Jeanne è un film rituale, ed il rito ha sempre a che vedere col teatro. Nondimeno, questa lettera spirituale di Bruno Dumont è troppo grande per stare su un palco, sebbene non sia certo la messa in scena ad aver bisogno di chissà quali spazi. Film di facce, volti profondamente reali, veri addirittura, perciò sinceri; tranne quando non devono esserlo, ed allora ci si affida ad attori professionisti per ricreare un corroborante contrasto. Per questo i dialoghi sono per lo più ripetuti, non recitati, non conta l’enfasi infusa in certi momenti; in questo Dumont c’è troppa finzione per il documentario così come troppo realismo per un film di finzione.
Il suo è un tentativo di tradurre in immagini, suoni, parole e colore, tutte insieme però, quel particolare tipo di Poesia che guarda alla Mistica, categoria che, per definizione, si presta con estrema fatica a qualsivoglia rappresentazione. Di certo è difficile piegare tutto ciò ad una serie di fotogrammi laddove invece, per fare un esempio, la musica si rivela strumento di gran lunga più appropriato. Ed infatti Dumont non ci rinuncia, poiché sa che dal tappeto sonoro, ridotto per quanto possa o debba essere, non dovrebbe solo trarre l’opportunità di intensificare certi passaggi, bensì collocarli su un livello diversamente inaccessibile.
Charles Peguy, scrittore da cui il regista francese ha attinto per scrivere la sua sceneggiatura, diceva che tutti abbiamo dodici anni. Non la protagonista, la piccola Lise Leplat Prudhomme, di appena undici anni. Altro indizio, altro rimando ad un approccio che vuole trasmettere qualcosa ricorrendo a tutti gli strumenti a disposizione – Giovanna infatti, all’epoca degli eventi, aveva circa diciannove anni. La sua vita, la sua ostinazione, tutte cose che l’hanno condotta al rogo, sono però appunto le medesime di una bambina, ché quello è l’unico modo per ottenere grandi cose lanciarsi in grandi imprese, ossia appunto la fiducia e la cocciutaggine di un bambino che si fida.
Si allude spesso ai dialoghi che la «Pucelle d’Orléans» intrattenne con Dio, gli stessi di cui al Processo disse di non voler parlare. Una discrezione su cui Dumont ha buon gioco, perché, francamente, come raffigurare in forma romanzata qualcosa di così inesprimibile. Il pudore della giovane si fa esso stesso linguaggio, tratto visivo di un film che comunque è attraverso il visibile che deve parlare, pur rinviando costantemente a quell’invisibile su cui comunque tutto poggia.
Anche in un contesto del genere Dumont riesce a trovare delle note più leggere, comiche, o appunto attraverso le espressioni grottesche dei suoi personaggi, certe pose smodate, volutamente esasperate nei gesti e nell’intonazione dei loro discorsi, oppure mediante certe linee di dialogo. Ma poi ci sono cose di una semplicità che ammalia, per intuizione e concetto, come nel caso della summenzionata Battaglia di Parigi, ricreata come fosse un gioco di ruolo, con coreografia a cavallo e tamburi battenti. Di altro tenore sono invece i due interrogatori, occasioni che Dumont sfrutta, senza discostarsi di una virgola dai resoconti, per metterci a parte in merito a certe riflessioni teologiche e filosofiche.
Non si creda infatti che la profonda appartenenza ad un certo contesto ed una specifica realtà, qual è quella cristiana, intacchi l’universalità della vicenda anziché, tutt’al contrario, amplificarla. Non importa a chi o cosa abbiamo dato la nostra testa o il nostro cuore: non si riuscirà mai del tutto a spiegare, a dare contezza con precisione oserei dire scientifica, circa l’evidenza di una ragazzina di nemmeno vent’anni che, sola, ha ribaltato le sorti di una Guerra terribile come quella dei Cent’anni. Se anche solo per un attimo si riesce, non dico a contemplare, ma anche solo ad aprirsi un pochettino all’umanità di questa piccola donna illetterata, arsa viva perché si è fidata di una voce che nessuno ha mai visto e che lei sola ha sentito o avvertito, ebbene, allora non è possibile che dinanzi a noi, se non sotto di noi, non si apra una voragine.
La parabola di Santa Giovanna d’Arco è quella di qualsiasi uomo o donna di ogni età e di ogni tempo, uno dei pochi, significativi passaggii che hanno davvero scompaginato qualcosa, che ci hanno fatto fare, come specie, un salto altrimenti impossibile. Non importa che tutti o ciascuno si sia in grado di riconoscerlo: quella giovane condottiera è stata grande e lo stata per tutti. Dumont è riuscito a penetrare l’entità di questo sconvolgimento epocale, replicandolo su schermo a suo modo, che è senz’altro meno immaginifico e giocoso rispetto a Jeannette. Eppure, dove cede in appeal ne guadagna, e tanto, in profondità, concedendosi quelle poche ma indovinate licenze che gli hanno consentito di accostarsi al dramma perenne non di una persona che sfida il Potere, bensì del Potere che sfida una persona, una delle migliori del proprio tempo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”9″ layout=”left”]
Jeanne (Francia, 2019) di Bruno Dumont. Con Lise Leplat Prudhomme, Annick Lavieville, Justine Herbez e Benoit Robail. Un Certain Regard.