Cannes 2019, Young Ahmed, recensione: i Dardenne su uno dei tanti giovani musulmani d’Europa
Festival di Cannes 2019: i fratelli Dardenne si cimentano in una piccola storia inerente a uno dei fenomeni più delicati di oggi, partendo come sempre dal dato umano
Ahmed è un musulmano osservante, che si abbevera alle fonti del Corano. Ha assunto come guida indiscutibile il proprio Imam, che venera senza in nessun caso metterne in discussione l’autorità. Ma Ahmed è anche un ragazzino che va a scuola, conducendo una vita che mette a dura prova la propria Fede. Dato uno zelo fuori parametro, il giovane decide che ciò che Dio vuole da lui nell’immediato è la morte della sua professoressa, che deve avvenire per mano sua. Pur esitante, Ahmed si fa coraggio e decide di procedere: lo vediamo goffamente preparare l’attentato, mentre fa avanti e indietro per le stanze di casa con un coltello infilato nella calza. Arriva il momento di agire, Ahmed è teso, palesemente inadeguato: dopo una goffa colluttazione, infatti, il tentativo non va a buon fine e ad Ahmed non resta che scappare, in attesa che la polizia lo trovi e lo costringa a lavorare, sorvegliato, presso una fattoria.
Stavolta i fratelli Dardenne affondando i denti su una questione spinosa, molto delicata, nel contesto di un’Europa che si sta limitando ad assistere, inerme, a un processo che arduo da regolare lo è a prescindere. Niente immigrazione o focus su un’integrazione mancata, i due registi belga vanno oltre, senza tentare di ricostruire situazioni che probabilmente nemmeno conoscono. Il punto di partenza è un dato di fatto, ossia quello delle seconde, terze generazioni, nati e cresciuti in Europa, islamici per principio ma europei nella pratica. Un soggetto enorme, difficile ad accostarvisi, figurarsi sviscerarlo.
C’è poca introspezione, ché Young Ahmed è anzitutto un film dei Dardenne, ma poi non è un film sulla Fede. Il problema è semmai sociale, ma non è confinato al qui e ora. Eppure neanche tale appunto ci dà la dimensione. Ahmed è evidentemente un bravo ragazzo, potenziale da secchioncello, faccia pulita; di suo, non c’è da fare chissà quale valutazione, si capisce che non farebbe male a una mosca. Eppure la persona che più stima in assoluto, di cui si fida ciecamente, lo incita e lo incalza sulla Jihad ventura, sull’importanza di porre la Fede davanti a ogni cosa, anche se questo significa sacrificare tutto. Ma queste sono cose che Ahmed, giovane com’è per l’appunto, non può ancora capire, una pietanza che il suo metabolismo non può ancora assimilare. Ed allora non fa altro che commettere errori, il più delle volte terribili, di quelli che ti cambiano la vita una volta per tutte.
Che una certa sobrietà contraddistingua il lavoro dei Dardenne non rende probabilmente l’idea rispetto a quanto qui il tutto sia davvero ridotto all’osso. Certi pianosequenza stanno lì a testimoniare un interesse diverso dal mero dipanarsi di una trama, quando l’osservazione, quasi lo studio di questo adolescente oltremodo impacciato che fa sorridere persino per come corre. C’è uno statement implicito, che il duo non intende mettere la parola fine sulla questione, che anzi sa essere inevitabilmente peculiare, non volendo perciò proporre ricette quasi sempre in certi casi aleatorie. Quanto alle difficoltà, ai bug di un sistema che, come già accennato, sta affrontando il problema non affrontandolo, beh, senz’altro Young Ahmed può, forse anche suo malgrado, dirci qualcosa.
Prendiamo ad esempio il rapporto con la ragazzina che incontra alla fattoria. I due s’invaghiscono l’uno dell’altra, quelle infatuazioni giovani dolci, non dico caste, ma in fondo innocenti, quando ancora non si sa nemmeno cosa si cerca e perché. Giunti al momento in cui lei si dichiara, altra indicazione circa i tempi che sono cambiati, un contesto davvero alieno da quello a cui, inconsapevolmente, aspira Ahmed, in cui sarebbe inconcepibile che una donna si facesse avanti per prima, il meccanismo di difesa del ragazzino s’innesca. È qualcosa che oramai non può più controllare e non sapremo mai come sia arrivato a quel punto, dato che, come detto, lo conosciamo allorché questo processo si è già consumato. Ecco allora la scissione, il dramma di un ragazzino che non sa nulla della vita, men che meno di sé stesso, dover acconsentire a regole, principi e precetti che nessuno gli ha illustrato, cadutigli sulla testa, tramortendolo.
Quanto appena evidenziato si lega alla resa di un finale che non vuole portare alle estreme conseguenze quei conflitti che, sebbene pallidamente, ad ogni modo fa emergere. Troppo conciliante, dunque sospettosamente inautentico, stonando con quel clima di rigido realismo al quale Young Ahmed è costretto nella sua interezza – componente che di per sé non di discute, in quanto afferente al modo di raccontare dei Dardenne. Certa semplicità fino a un certo punto riesce perciò a farsi chiarezza nell’esposizione, mentre sotto un altro aspetto finisce tutt’al più con lo sfiorare l’entità del fenomeno. Il problema, ebbene, quello è un altro discorso, visto che davvero qui i Dardenne sono più interessati alle difficoltà concrete di Ahmed piuttosto che a uscirsene con qualsivoglia proclama. In tal senso manifestando il solito acume, che però stavolta incide fino a un certo punto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
Young Ahmed (Le jeune Ahmed, Belgio/Francia, 2019) dei fratelli Dardenne. Con Idir Ben Addi, Olivier Bonnaud, Myriem Akheddiou, Victoria Bluck, Claire Bodson e Othmane Moumen. Concorso.