Cannes 2019, C’era una volta a… Hollywood, recensione: l’onirica città dei diavoli di Tarantino
Festival di Cannes 2019: manca la botta, ma la Los Angeles di fine anni ’60 vista da Quentin Tarantino qualcosa la dice eccome
Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un attore in declino, lento ma inesorabile. Il suo migliore amico, Cliff Booth (Brad Pitt), ricopre più ruoli: gli fa da controfigura, lo scarrozza per Los Angeles, e poi sì, è un suo amico. Quentin Tarantino lo mette in chiaro da subito che il film sarà in qualche modo su di loro, sulla loro amicizia; che insomma anche lì sta quella fiaba che è la sua ricostruzione della Hollywood e dintorni di fine anni ’60. Una ricostruzione basata sulle ossessioni di questo regista, per cui quegli anni vengono vissuti attraverso lo schermo di un cinema o quello di un tubo catodico, così come dalla musica che passano alla radio, dai vestiti che la gente indossa, le auto che guida, il cibo che mangia.
È quasi come se quel mondo lì non fosse nemmeno esistito se non ci fosse stato consegnato da questi mezzi, onnipresenti, incalzanti; li trovi sempre, costantemente, sullo sfondo, vere e proprie comparse che alla fine si rivelano meno ornamentali di quello che sembrano. Un impresario col pelo sullo stomaco (Al Pacino) tratteggia con lucidità disarmante la parabola di Rick, prevedendone gli step successivi persino. Rick ne esce devastato: per la prima volta realizza il suo declino, dinanzi al quale l’unica cosa che può fare è prenderne atto. Ma sarà almeno in parte reversibile tale processo?
Nel frattempo, siamo ai primi di febbraio del 1969, Cliff si muove per le assolate vie di Los Angeles a bordo dell’auto con cui porta in giro il suo amico. In più di un’occasione incappa in questa giovane ragazza che lo osserva, seducendolo: i due si scambiano occhiate, gesti e segni, finché alla terza volta Cliff, bontà sua, decide di darle un passaggio in un posto che si chiama Spahn Ranch. Dopo circa metà film in cui Tarantino si è preso tutto il tempo per seguire con calma olimpica situazioni apparentemente banali, ecco arrivare il primo acuto: Spahn Ranch è infatti il luogo dove si riunisce il gruppo di Charles Manson. È il primo ed unico momento di tensione vera.
Nel frattempo sono passati in rassegna una serie di personaggi, da Sharon Tate (Margot Robbie) al marito Roman Polanski (Rafal Zawierucha), passando per Bruce Lee (Mike Moh), con cui Cliff ha pure il piacere di scambiare quella che per lui è una scazzottata, mentre per Lee l’ennesima occasione per sfoggiare la sua Arte. Scena esilarante, quest’ultima, dai tempi tarantiniani, nei gesti, nei versi, nei silenzi, nella sfacciataggine di un Cliff che sembra davvero venire da un altro pianeta. Dal personaggio di Brad Pitt passa tanto, e non solo per quel finale lì, che come sempre con Tarantino si sostanzia in un’esplosione più o meno estemporanea di violenza, per quanto contenuta, dopo peraltro avercela negata pressoché per tutto il film.
No, Cliff, che sia esistito o meno, è parte della retorica e degli USA di quegli anni: l’americano che non ha paura di niente e nessuno, leale, giusto, che apprezza quelle piccole cose (americane) di cui peraltro va fiero. E Tarantino, data l’epoca, un profilo del genere lo riesuma proprio, tra il serio e il faceto. Il modo in cui contrappone Cliff agli adepti di Manson, che giudica né più e né meno degli hippie debosciati, dice parecchio circa il fatto che C’era una volta a… Hollywood non è quell’innocua ricostruzione a mo’ d’omaggio che si sarebbe tentati di far passare. O quantomeno, non solo questo.
Col tempo Tarantino pare essersi addolcito, per così dire, e questo, che è sicuramente il suo film più avulso da tutto il resto, non un figlio illegittimo ma quello diverso, magari più dotato – e forse anche per questo c’è chi farà fatica ad accettarlo – ne è la prova. Lo è non solo nell’esecuzione ma anche nelle conclusioni, in quel revisionismo ottimista che offre un briciolo di speranza, aprendo uno spiraglio che fin qui non si era mai avvertito, di certo non con questa intensità. Ritornando un po’ alle sue origini, quelle da cineasta indipendente che si strugge per emergere, Tarantino gira probabilmente il film che ha sognato di fare da sempre ma che fino ad ora non ha potuto o voluto fare. Non stiamo lì ad uscircene con espressioni altisonanti quali «il film di una vita», sia perché in fondo «che ne sappiamo?», e poi perché, pur volendo, non è questo il momento per spingersi così oltre.
Certo è che si tratta di un Quentin Tarantino diverso, più meditabondo, che si concede una placidità la quale per certi versi è negazione di quella Hollywood che al contempo sta celebrando. La trama entra nel proverbiale fazzoletto, ridotta all’osso proprio; ciò su cui il regista italo-americano lavora sono i dettagli, le sfumature che hanno a che vedere con l’ambiente ma soprattutto le suggestioni che ad esso rimandano. Diverso, rispetto a tutto quanto è venuto prima, anche perché probabilmente il meno parlato, lui che di solito è strabordante nei dialoghi, per quantità e qualità. Qui va in economia, si limita ad osservare, a seguire, come appunto spesso avviene con le opere della maturità.
Tutto ciò non può che avere ripercussioni, la cui impressione richiederebbe più tempo e lucidità per essere vagliata a dovere. Ma non sono tutte rose e fiori, perché C’era una volta a… Hollywood rischia tanto in virtù del fatto che non gli basta essere un buon film, né una cosa del genere avrebbe mai potuto essere sufficiente. Chi infatti in un regista cerca il marchio, lo stile, che poi spesso si traduce nella pretesa che faccia sempre la stessa cosa, non può che rimanere spiazzato da questo Tarantino, che non rinnega nulla ma un po’ certamente cambia, pur mantenendo una certa ironia.
E lo fa, paradossalmente, anche perché, una volta tanto, non riflette solo su ciò che lo appassiona ma su sé stesso che coltiva quelle passioni. Quando decide di mandare in Italia Rick per alzare su quei soldi che lì nell’epicentro dell’industria dorata stanno mancando, a chi lo accosta? Ma ovviamente a gente come Segio Corbucci e Antonio Margheriti, facendolo comparire in b-movie come Nebraska Jim, Uccidimi subito Ringo, disse il gringo e The Wrecking Crew, dei western, classici o urbani. Film, per inteso, che verrebbe la voglia di vedere e che magari Tarantino, basandosi sul suo sconfinato amore per questi cineasti, avrà finanche immaginato in profondità.
E malgrado C’era una volta a… Hollywood un’anima ce l’abbia eccome, manca quel quid che lo collochi su un livello altro, non intendendo necessariamente l’opera spartiacque. Il nono film di Tarantino è un lavoro maturo, di chi sa che cosa vuole e come riuscire ad ottenerlo. Vive di momenti, licenze, cose piccole che non fanno rumore ma che eppure sono importanti, come due veri amici che si siedono davanti alla TV sorseggiando le loro birre, oppure il condurci sul set di un Western, facendoci stare in mezzo agli attori in quei momenti di cui di solito pochi sanno, talvolta nessuno se non la piccola e l’adulto che discutono lontano dalla macchina da presa.
Un film che ha dell’horror, perché in fondo chi e cosa sono quelle giovani ragazze che rovistano nella spazzatura e si aggirano per la città felici e sorridenti, se non diavoli scesi a destarci dai sogni e dal sogno, quello americano, che al contempo li ha prodotti? La storia sarebbe potuta andare diversamente, certo, ma non per questo ci si sarebbe potuti davvero liberare della minaccia incombente. E non potendola eliminare, non resta che tornare a non pensarci, vivere quei momenti buoni che ci capita di sperimentare e tenersi sempre pronti agli uragani. Dicevamo di un Tarantino più speranzoso. Per l’appunto.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
C’era una volta a… Hollywood (Once Upon a Time in Hollywood, USA, 2019) di Quentin Tarantino. Con Margot Robbie, Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Dakota Fanning, Timothy Olyphant, Al Pacino, Kurt Russell, Damian Lewis, Emile Hirsch, Luke Perry, Victoria Pedretti, Scoot McNairy e Lorenza Izzo. Concorso.