Cannes 2019, Parasite, recensione: povertà e miseria nella mente di Bong Joon-ho
Festival di Cannes 2019: a due anni dal film che contribuì alla semi-rottura tra Cannes e Netflix, ossia Okja, Bong Joon-ho torna a Cannes con una storia davvero particolare, che è pure il suo miglior film
La famiglia Ki-taek vive in una sorta di scantinato. La finestra della cucina dà sulla strada, dove un tizio viene spesso dopo l’ennesima sbronza. Abituati ad arrabattarsi, fanno poco o nulla per ribaltare queste condizioni, se non piegare cartoni della pizza in maniera approssimativa e pretendere che la tizia a cui li consegnano sorvoli sulla cosa e paghi sull’unghia comunque. Per il resto, nessuno di loro è occupato. Ki-woo, uno dei due figli, viene a sapere che presso un architetto molto abbiente potrebbe esserci la possibilità di farsi impiegare come tutore della figlia, che ha bisogno d’imparare l’inglese. Peccato il nostro non abbia alcun attestato: poco male, se lo fabbrica, invitando il padre a non parlare di falsificazione… tanto lui gli studi prima o poi li finirà, quello perciò è una sorta di anticipo.
Giunto in questa abitazione moderna e spaziosa, a riceverlo c’è Yeon-kyo, la padrona di casa che da subito fa capire di non essere particolarmente interessata al pezzo di carta. Il marito, Mr. Park, fa l’architetto, non a caso è stato lui a disegnare la casa in cui vivono. Quanto a lei, la sua mansione è quella di chi in buona sostanza non ha nulla da fare, ossia coltivare i figli, preoccuparsi che con loro non si lasci nulla d’intentato. Ki-woo, senza nemmeno troppa fatica, riesce a convincere la donna di essere la persona giusta, ma non è tutto qui. Avendo infatti capito chi ha davanti, il giovane ne approfitta per segnalarle pure un’insegnante di Arte per il figlio, i cui scarabocchi sono oltremodo apprezzati da Yeon-kyo, reputandolo addirittura un genio precoce. Tale raccomandazione, manco a dirlo, riguarda la sorella di Ki-woo, Ki-jung. Nel giro di poco i Ki-taek riescono a porsi tutti al servizio di Mr. Park, ciascuno con una mansione diversa.
Non giriamoci attorno: Parasite è la cosa migliore che la mente e l’abilità di Bong Joon-ho sono riusciti a partorire fino ad ora. Sì, anche a fronte dei vari Memories of a Murder, The Host e Snowpiercer. Il suo è un lavoro che sfugge alle etichette, ma che, volendone apporre una, la si potrebbe definire una commedia nera che vira al dramma, per poi chiudersi in tragedia. Una sorta di Body Snatchers senza la fantascienza, a conferma che il depistaggio di Bong Joon-ho aveva un suo senso. Non si tratta tuttavia di ricorrere a categorie, perché Parasite è un oggetto a sé, uno di quelli a cui è davvero difficile trovare un difetto. Ogni singola componente è ai massimi livelli, curata con la maestria tipica di chi ha una piena padronanza non solo del mezzo ma di ciò che s’intende dire. E cosa ha voluto dire il regista sudcoreano?
Anzitutto renderci edotti circa l’enorme differenza che passa tra povertà e miseria, sebbene la linea di demarcazione in concreto si mostri spesso fin troppo sottile. Il suo è un argomento pressoché inattaccabile in tal senso, al netto di certe fini esasperazioni tipiche del cinema di Bong Joon-ho, che amplificano il significato senza sottrarre la vicenda e i suoi personaggi da quello statuto di verosimiglianza che vige quanto basta per restare sempre a bordo, divertiti, sorpresi e scossi. Non si sa mai che direzione possa prendere Parasite, fino a che punto i Ki-taek possano spingersi nell’ottica di questo loro rosicchiare quel briciolo di benessere che non gli appartiene.
C’è un momento in cui davvero non si riesce a capire cos’altro possa accadere, dove si voglia andare a parare. Mr. Park e famiglia sono fuori per il fine settimana, così i “dipendenti” ne approfittano per fare come se fossero a casa loro, godendosela. Ciò che innesca la follia successiva, quella catena di eventi incredibili eppure pienamente integrati, è la comparsa di colei che fino a qualche giorno prima è stata la tata della casa, anch’essa vittima dei Ki-taek. La visita non è casuale, men che meno di cortesia: perché nell’elegante villa di Mr. Park anche lei ha un segreto; un segreto che ha lasciato nello scantinato.
Da qui in avanti Parasite è una giostra stupefacente di situazioni grottesche ancorché indicative rispetto alla condizione di tutti e ciascun personaggio. Già in precedenza accade che si resti in apnea per un po’; quel che ancora però non è possibile immaginare è che si tratti tutt’al più dell’antipasto. Da qui in avanti, infatti, Bong Joon-ho mantiene l’unità di tempo, e la seconda parte del film si svolge praticamente in mezza giornata. Impossibile, oltre che inutile, star qui a descrivere di che si tratta. Tutt’al più possiamo trasmettere il piacere generato da sequenze girate in maniera sublime, ponderate, un’escalation esilarante che colpisce su più fronti.
Il bello è che Bong Joon-ho non ha soltanto delle idee (quelle le abbiamo tutti), ma sa esattamente cosa farci, fin dove spingerle – ossia al limite delle loro possibilità – cavandone il massimo, sempre. Non si contenta di aver trovato il modo di far progredire l’azione, poiché nel frattempo sa di dover operare anche su quegli elementi che facciano da collante, che diano spessore alla luce della direzione data a priori. E sono quasi in ogni caso sviluppi di una raffinatezza unica, spassosi sia per lo svolgimento che per le implicazioni. Non vi è infatti ancora stato detto che, tra le altre cose, Parasite è un film estremamente spassoso. Lo è perché fa sorridere, certo, ma anche perché intrattiene, e a più livelli, come fossimo nel mainstream più scafato.
Eppure l’autorialità non si discute, perché quello di Parasite è un mondo a sé stante, creato in tutto e per tutto da Bong Joon-ho, retto da principi implacabili e personaggi che davvero non possono lasciare indifferenti. Li si può odiare, li si può compatire, se ne può finanche avere simpatia, ma che siano vivi non ci sono dubbi. È un tipo d’umanità particolare, che consente un collegamento avulso dall’empatia, basato per lo più sulla sensatezza dei loro profili. Realizzando a pieno il significato vero di ambiguità, quella per cui una data cosa non può essere o tutto o niente, bensì il dubbio insolvibile deve sempre dondolare tra due possibilità e due soltanto. Perciò, se parliamo dei Ki-taek, sono buoni o cattivi? Poveri o miserabili? Giusti o disonesti?
Un trattamento che riguarda anche tutti gli altri personaggi, poiché nessuno di loro soffre di quella bidimensionalità che lo renda poco o per nulla interessante. Difficile stabilire fino a che punto giochi a favore la precisione e l’esattezza non solo della scrittura ma forse ancora di più della messa in scena, che trovano pieno compimento in un montaggio che usa i tempi in modo encomiabile, pulito. Ci si diverte ma si riflette, si sorride ma ci si amareggia; il regista sudcoreano si candida ad essere uno dei commentatori di certe dinamiche sociali più incisivi ed originali forse dai tempi del Paul Verhoeven che fece scuola. Se qualsivoglia discorso sulla perfezione, nella pratica più che come valore astratto, avesse un senso, questi drammi familiari, che riescono persino ad eludere un cinismo decisamente alla portata, non sfigurerebbero affatto quale esempio. Bong Joon-ho gira il suo film migliore; ed è un gran film.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”10″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”10″ layout=”left”]
Parasite (Gisaenchung, Corea del Sud, 2019) di Bong Joon ho. Con Song Kang-ho, Choi Woo-shik, Lee Sun-kyun, Park So-dam, Cho Yeo-jeong, Lee Jung-eun, Chang Hyae-jin, Jung Ziso e Jung Hyeon-jun. Concorso.