Venezia 2019, No. 7 Cherry Lane, recensione – triangolo amoroso in una sensuale Hong-Kong anni ’60
In una rivisitata Hong-Kong di fine anni ’60, lo spaesante triangolo amoroso tra madre, figlia e un giovane studente. Leggete la nostra recensione di No. 7 Cherry Lane
«In quel giorno era impossibile passeggiare». In queste sei parole qualcuno avrà già riconosciuto l’inizio di uno dei romanzi più celebri dell’800, quel Jane Eyre scritto da Charlotte Brontë. Ricorrono più volte, stampate proprio su quella prima pagina del libro, in maniera nient’affatto casuale; mi pare che questa frase sia piuttosto indicativa di No. 7 Cherry Lane del regista Yonfan, anzi, che addirittura in qualche modo rappresentino quest’inquieta rievocazione di un’epoca, di un luogo, di certe sensazioni.
Un percorso che non procede in maniera lineare, ma neanche alla lontana, dandoci proprio quell’impressione lì, ossia che a tratti sia impossibile proseguire, destreggiarsi in mezzo a certe scene, certi riferimenti, situazioni sopra le righe (tra queste, dei preliminari tra un ragazzo e due gatti). Yonfan decide di abdicare alla forma classica, anche se questo non dice tutto; la sua storia sta meno che nell’inflazionato fazzoletto, forse addirittura in meno di tre righe. Proviamoci. Nella Hong-Kong del ’67 Ziming, un giovane universitario, tiene delle lezioni private alla bellissima Meiling; nel frattempo, tuttavia, comincia ad intrattenere una strana relazione con la madre di lei, Yu, una che da giovane fu una sorta di rivoluzionaria. Visto?
In buona sostanza si tratta del più classico dei triangoli amorosi. Se Yonfan può infatti concedersi di spaziare nei modi, nelle tante licenze, ebbene, ci riesce perché i suoi sono temi quintessenzialmente legati al Cinema, più e più volte bazzicati, sviscerati, tanto che, per tornarci, è evidente fosse necessaria una chiave diversa, anche col rischio d’indisporre. Perché sì, No. 7 Cherry Lane non è certo film che va incontro allo spettatore, chiedendo di essere indulgente verso sue peculiarità, a partire dalla voluta lentezza delle movenze dei suoi personaggi, che si trascinano lungo le varie inquadrature con un incedere oltremodo cadenzato, placido. Yonfan è affascinato dal concetto di Tempo, la qual cosa appare ancor più evidente quando Ziming tesse le lodi del suo romanzo preferito in assoluto, ossia Alla ricerca del tempo perduto. Rapito dall’idea che Proust potesse spendere anche quaranta pagine per descrivere un lasso di tempo ristretto, per esempio una notte in cui non avviene nulla di eclatante, il regista cinese tenta di replicare questo processo qui, servendosi degli espedienti che il mezzo gli mette a disposizione.
Dimensioni che infatti si alternano, a tratti fondendosi, tanto che da un certo punto in avanti non è più possibile distinguere la realtà dal sogno, dal ricordo, oppure dalla semplice suggestione – si finisce per entrare, letteralmente, persino in un capitolo de Il sogno della camera rossa, uno dei maggiori romanzi cinesi di sempre. Saltando da una prospettiva all’altra, la più percettibile quella di Yu, che si addormenta e s’immagina nei panni Miaoyu, monaca taoista del romanzo appena menzionato, le cui due vicende si fondono pur approdando a conclusioni con ogni probabilità diverse. Ci sono poi gli incontri in una sala cinematografica, con un’attrice francese, Madame Simone (Signoret?), a sublimare i desideri di Yu, incastrata tra la consapevolezza di non poter intraprendere una relazione con Ziming per mera convenzione sociale, troppo più giovane di lei, è la brama di darsi ad una passione sfrenata.
Film di gatti, pure, la cui presenza è più o meno costante, ma sulla cui valenza simbolica non mi sento di sbilanciarmi, pur dovendo appunto tenere conto del fatto che un peso ce l’hanno all’interno di una cornice estremamente ambigua, dove non a caso è facile perdere la bussola. Ed è ciò a cui in fondo, questo sì senza possibilità di sbagliarsi, ambisce Yonfan, che in alcuni momenti probabilmente forza un po’ troppo la mano, eccedendo; anche questi difetti, tuttavia, queste crepe, mi pare siano segno di una generale vitalità di No. 7 Cherry Lane, che è tutto e il contrario di tutto.
Perché sostanzialmente vuole tutto, non accontentandosi di un solo periodo storico, di un solo arco narrativo, di un solo genere o una sola dimensione. Generando cortocircuiti continui, ora di una semplicità disarmante, ora di una complessità pressoché ermetica, con quel suo tratto che suscita già di suo un senso di fissità, che è un po’ la prerogativa dell’animazione 2D così per come viene almeno declinata nel film. Opera suadente, il cui fascino supera la congestione di tanti elementi, nonché un’amalgama che, come già ravvisato, in alcuni frangenti addirittura stordisce, forte però di una sensualità tutta sua. Ad avercene.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”6″ layout=”left”]
No. 7 Cherry Lane (Ji Yuan Tai Qi Hao, Cina, 2019) Sylvia Chang, Zhao Wei, Alex Lam, Kelly Yao, Teresa Cheung, Jiang Wenli, Natalia Duplessis, Daniel Wu, Stephen Fung, Tian Zhuangzhuang, Ann Hui, Fruit Chan e Rebecca Pan. Concorso.