Filmmaker 2019, Varda par Agnès, recensione – il documento di una vita
L’ultimo film di Agnès Varda, un’occasione per dire a noi quel che a lei era chiaro da un po’
Accostarsi ad un film come Varda par Agnès richiede alcuni accorgimenti che di solito si rivelano non necessari, o addirittura inutili. Va anzitutto inquadrato di cosa si tratta, affinché successivamente ci s’intenda anche sul perché un lavoro del genere sia importante; non semplicemente come resoconto, il classico riflettere su quanto è stato dopo una vita. Agnès Varda, avemmo modo di scriverlo in occasione della sua morte, avvenuta a fine marzo scorso, ha avuto un ruolo particolare, ritagliatoselo senza urla e strepitii, solo col lavoro e la passione inesausti. Aveva cominciato già prima del suo film di debutto, La pointe courte (1954), e fu attraverso la fotografia. Nel suo ultimo film prima di questo, ossia Visages, Villages (2017), va in giro per la campagna francese a fare ritratti di persone comuni per poi stamparne gli ingrandimenti ed appiccicarli, giganteschi, su muri e superfici di case, palazzi o strade. Un ritorno alle origini, insomma.
Ovviamente Varda par Agnès non ripercorre tutto, lasciando fuori molto. Lo dice all’inizio la regista, con quell’aria svagata, quel sorriso beffardo come di chi è consapevole di esserci riuscita un’ultima volta a farla a tutti sotto il naso: «checché vorrete scrivere o filmare di me dopo che me ne sarò andata, questo è quello che avevo da dire su ciò che mi ha animato per tutta la vita». Perché sì, tra l’altro, da donna d’altri tempi, per quanto al passo coi tempi, ha quasi il pudore, il buon senso di soffermarsi sulla Varda artista, sulla sua opera insomma. Chiaro che, specie in casi come questi, scindere l’opera dall’autore è pratica rischiosa, forse addirittura velleitaria. Ma basta osservare come parla di Jacques Demy, in che termini, quanto spazio gli dedica, anche in considerazione del fatto che è questa l’unica nota di vita squisitamente privata che emerge.
Il resto sono i suoi film, ed in generale, come già evidenziato, le varie manifestazioni di quell’interesse a fare le cose che più l’hanno accalorata nel corso di oltre mezzo secolo. Chi scrive, per esempio, non era al corrente di quanto Agnès Varda da dopo il 2000 fosse stata attiva sul fronte delle installazioni artistiche e della cosiddetta videoarte in generale. Ha a che vedere con l’acquisto della sua prima videocamera digitale? Molto probabile, a conferma di quanto affermato circa il suo essere al passo coi tempi. Ne parla come di un passaggio liberatorio: il poter andare in giro a riprendere quello che le pareva, storie e soggetti che anzitutto interessavano a lei, per cui quasi certamente, malgrado il suo status, avrebbe dovuto incassare rifiuti a mai finire qualora avesse chiesto soldi a qualcuno.
Lo status. Eh, mica lo si conquista da un giorno all’altro. Non so, per dire, cosa e quanto sia costato ad Agnès diventare Varda, e credo che, al di là di tutto, testimonianze, studi e notizie frammentarie, si tratta di un segreto che la nostra si è portato nella tomba. Sta di fatto che c’è arrivata; Agnès Varda, questo posso dire di averlo addirittura “vissuto”, nell’ultima parte della sua carriera/vita è persino assurta al rango di rockstar, per quanto lo si possa essere in questo periodo storico. Il suo taglio di capelli oramai inconfondibile, bicolore, quell’aria bonaria da irresistibile vecchietta che però dall’età adulta pare non esserci passata neanche per sbaglio, quasi che tale fase non l’avesse nemmeno sfiorata.
C’è tutto questo in Varda par Agnès: il suo porsi davanti a un pubblico, non del tutto persuasa pur sapendo di avere qualcosa da dire, e raccontare anni trascorsi a realizzare piccoli e grandi progetti, senza rimorsi o rancori, risparmiando pure quella retorica di fine corsa, eludendo l’autocelebrazione (fattispecie alla quale sto pensando giusto ora che ne scrivo, mentre durante e dopo la visione l’idea non mi ha manco sfiorato). Mi domando allora perché dovremmo essere noi ad indulgere su qualcosa che evidentemente le importava il giusto. Il senso di tutto Agnès Varda l’ha trovato nel fare ciò che ha fatto, che quasi sempre è consistito nel prendere in mano una macchina con un obiettivo piantato sopra e guardare ciò che aveva davanti, immaginandolo diversamente.
A questo punto trovo fuori luogo attardarsi oltre sullo statuto di realismo tra opere di finzione e documentari, su quanto cioè stesse a cuore alla regista riportare qualcosa o invece riportarla rielaborandola con un pizzico di finta ingenuità, quasi infantile, dunque giocosa persino. E non che la Varda abbia girato solo un tipo di film – oppure, per quel che vale, sia rimasta confinata al cinema, come viene confermato in questa sua ultima fatica – il che a maggior ragione c’induce a guardare ad altro. In Varda par Agnès c’è la verità di un’artista, la pienezza di un’esistenza spesa a fare ciò che si è sempre avvertito come una necessità, se non addirittura una missione, senza dover chiedere il permesso a chi, giustamente peraltro, non può capire. Dubito vi siano tanti altri modi per restare così lucidi e motivati fino a 90 anni.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8.5″ layout=”left”]
Varda par Agnès (Francia, 2019) di Agnès Varda. Con Agnès Varda.