Sanremo 2020, Morgan mette in scena la sua versione di Joker
Riflessione su un improbabile ancorché accattivante parallelo tra il Joker e l’uscita di scena di Morgan al Festival di Sanremo
Non so quanti di voi che bazzicano queste nostre pagine, onorandoci, stanno al contempo seguendo presso i nostri cugini di Soundsblog cosa sta accadendo a Sanremo. Senza fare alcun giro largo, nella serata di ieri, o per meglio dire nottata, dopo ore un po’ sonnecchianti, arriva il turno di Bugo e Morgan, che all’edizione di quest’anno hanno cantato Sincero. Chi non è al corrente dell’accaduto, farebbe meglio a documentarsi guardando questo video, così da capire orientativamente di cosa si sta parlando.
Do per scontato che a questo punto abbiate già provveduto, per cui proseguiamo. In queste ore si sono tenute le conferenze stampa di entrambi gli artisti, ciascuno con la propria versione rispetto a quanto accaduto in questi giorni; dichiarazioni post-serata a dire il vero inaugurate da Morgan, che in piena notte ha contattato Red Ronnie per far girare a caldo la sua reazione e quanto aveva da dire in merito alla vicenda. A chi scrive francamente interessa poco dare patenti, per lo meno non in questa sede; non avendo peraltro un quadro completo della situazione, ammesso che da questa parte si possa davvero acquisire, troverei finanche insensato esporsi in tal senso.
L’aspetto che più m’incuriosisce e sì, quasi m’appassiona, è, né più né meno, ciò che abbiamo visto, quanto la diretta ha trasmesso. È stato un momento di certo spiazzante ma al contempo corroborante, che ha rotto una monotonia relativa non tanto alla serata in sé quanto, almeno per quanto mi riguarda, rispetto all’intero carrozzone che è questa manifestazione. Non sono la persona adatta anche solo a tentare un’analisi di ciò che il Festival di Sanremo rappresenta per questo Paese; da profano, uno cioè che ha da sempre vissuto l’appuntamento in questione con un certo distacco, non riesco tuttavia a fare a meno di registrare quanto tale evento sia sentito, fino a che punto coinvolga, anche e forse soprattutto nell’era dei social, spettacolo che si sovrappone allo spettacolo.
Ecco, è questa la prospettiva dalla quale intendo accostarmi, lo spettacolo. In fondo non siamo lontani da quanto trattiamo su queste pagine, sebbene al cinema l’imprevisto non esista, se non nell’ambito di una finzione che se ne serve preventivamente in funziona narrativa. Eppure quanta narrazione c’è in questo episodio, anche solo, appunto, restando alle immagini, a ciò di cui concretamente possiamo essere certi, tutti elementi che ognuno poi sottoporrà alla propria ricostruzione!
Non è il sottoscritto ad evidenziare come ieri, per certi versi, si sia aperta una nuova fase, l’aura sacrale che attornia il Festival, quel palco, lesa da qualcosa mai accaduta prima, roba che nemmeno il tizio salvato da Pippo Baudo negli anni ’90. Da spettatore professionista (cit.), uno che si sforza a vivere di Cinema, non sono riuscito a fare a meno di creare una connessione, qualcosa che si è imposto mio malgrado, ma che successivamente ho trovato beffardamente fondato. Mi riferisco ad un improbabile, magari azzardato, ma nondimeno interessante parallelo col Joker di Todd Phillips. A questo punto, per continuare a seguirmi, tocca che il film lo si sia visto, altrimenti è impossibile. Chi non ha avuto modo, sappia che da qui in avanti si va di spoiler, dunque a vostro rischio e pericolo.
Il Joker interpretato da Joaquin Phoenix altro non rappresenta che l’origin story di un villain, che mi pare passi essenzialmente da quattro fasi:
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1) conflitto (la condizione di partenza, cioè l’isolamento dovuto al disagio della malattia e del vivere in un contesto in cui tutto va a rotoli);
2) consapevolezza (la percezione di potersi ritagliare uno spazio, di non dovere necessariamente subire le circostanze, a patto di (re)agire, di fare qualcosa capace d’innescare questo cambiamento, tanto più radicale quanto più il primo passo è esasperato);
3) azione (l’atto, ossia il manifestarsi nella realtà di questo profondo desiderio di emancipazione, dimostrando anzitutto a sé stessi che esiste uno scenario in cui non si è più vittime, anche a costo di invertire le posizioni, diventando carnefici);
4) svelamento (avendo la realtà dimostrato che questo mutamento è possibile, proprio perché, concretamente, si è già realizzato, non resta che metterne a parte gli altri, venire fuori “pubblicamente”, dichiarando sulla pubblica piazza la propria nuova identità).
Questo schema m’aiuta a chiarire in che misura la parabola di Arthur Fleck, per lo meno in alcuni punti, tocchi quella di Morgan a Sanremo. È evidente che le due vicende non siano sovrapponibili, se non altro perché Marco Castoldi non diventa ieri Morgan, il suo personaggio oramai “svelatosi”, secondo il nostro schema, da tempo. Ciò che in qualche modo mette sul medesimo piano le due vicende, da un punto di vista puramente narrativo, ci mancherebbe, è il summenzionato imprevisto.
In cosa, specificatamente? Ebbene, anzitutto in relazione al fatto che il climax delle rispettive scene, entrambe svoltesi in diretta, è tale per tutti fuorché per i due protagonisti. Tanto Arthur quanto Morgan sanno grossomodo cosa vogliono fare, anzitutto perché sono gli unici ad essere davvero consapevoli, nei rispettivi archi, da quali sentimenti e sensazioni sono attraversati. Quello che perciò per loro è la messa in scena di uno scenario premeditato, almeno in rapporto ai suoi punti chiave, per noi è un colpo di scena. E quando dico noi, lo ripeto, intendo tutti coloro che non sono Morgan/Joker. Io stesso, a caldo, ammetto di aver ipotizzato si fosse trattato di una montatura, Bugo e Morgan d’accordo nel chiudere così la loro esperienza. Oggi mi pare vi siano svariati elementi per dubitare di tale tesi, la quale, in fin dei conti, ai fini di ciò che sto illustrando, rileva relativamente.
Ciò che conta, come accennato sopra, è lo spettacolo, ciò che sta davanti alla macchina da presa; tutto è subordinato a questo, perciò, anche qualora ci si permette di discutere in merito a cose che non vediamo, tipo appunto i moti interiori che hanno condotto i due protagonisti a commettere il loro gesto, lo si fa solo nell’ottica del racconto, del suo apice. Per essere più chiaro: cosa sia accaduto tra Morgan e Bugo, o tra Morgan e l’entourage di Bugo, non c’interessa, nella misura in cui sappiamo che Morgan ritiene di avere un conto in sospeso, che è il motore dell’azione, il motivo che lo spinge ad agire in diretta; le ragioni dietro tale motivo le si lascia ad altri. Perciò così come la vittima di tale “macchinazione” è all’oscuro di tutto, così lo siamo noi spettatori, che seguiamo l’avvicendarsi degli eventi da terzi.
Per un attimo ieri ho assistito all’irrompere non tanto della realtà in un film, quanto piuttosto di un film nella realtà insomma. Violento, a suo modo traumatico, non importa se, Deo gratias, nessuno c’abbia rimesso la pelle. Al di là dei tempi, più diluiti sul palco di Sanremo che nello studio televisivo del Joker, l’estemporaneo colpo di pistola genera il medesimo effetto; il pubblico “sconvolto” da quello che è più di un semplice venir meno del protocollo. Nel film di Phillips quel culmine intende rappresentare la realtà che prende il sopravvento sulla finzione, mentre all’Ariston si è assistito al processo inverso, ossia la finzione che si rifà sulla realtà. Finzione, in quest’ultimo caso, non nel senso già detto, ossia che l’intera pantomima fosse premeditata da entrambi i protagonisti, bensì nel senso che la realtà di una performance dal vivo viene sopraffatta dal disegno di uno solo, in questo caso Morgan, il quale costruisce a priori una situazione in cui si deroga dalla realtà per filtrare qualcos’altro.
Quanto appena descritto ci conduce a poter tirare le somme, dato che a questo punto la domanda da porsi è: in entrambi i casi, a quale risultato si vorrebbe pervenire mediante il ricorso all’inatteso? Se infatti definiamo le due scene come inverse (realtà contro finzione/finzione contro realtà) lo facciamo in relazione al mezzo più che al risultato: nel Joker, che è un film, il protagonista, il quale all’interno di tale finzione è reale, si serve di un piano architettato preventivamente (quindi di un’altra forma di finzione) per squarciare la sua realtà, che però per noi spettatori tale non è. Morgan, al contrario, condivide con lo spettatore il medesimo statuto di realtà: lì sul palco è chiamato ad esibirsi per davvero, e tutto ciò è reale tanto per lui quanto per noi; questa realtà reale, mi si conceda la ridondanza, viene rotta da quella che inizialmente è una finzione, o l’anticamera di essa, ossia, come già scritto, un disegno, che però ha ripercussioni sulla realtà, modificandola.
Le realtà del Joker e di Morgan, infatti, vengono modificate, i rispettivi disegni in grado di scatenare una reazione che coinvolge un numero indefinito di persone, le quali, senza il loro intervento, non avrebbero appunto reagito. E tocca tornare alla domanda di cui sopra, alla quale, ringraziando per la pazienza chi è arrivato fin qui, posso finalmente rispondere. Non v’è infatti dubbio che ciò che vogliono ristabilire questi due personaggi sia una cosa ed una soltanto: la loro verità. Joker e Morgan si ribellano a ciò che avvertono come una profonda ingiustizia, o una serie d’ingiustizie, non semplicemente vendicandosi, ma servendosi dell’imprevisto per costringere un’audience che va al di là del luogo in cui si sta concretizzando la loro performance, a porsi delle domande e comportarsi di conseguenza.
Che le intenzioni di entrambi si traducano in un’implicita chiamata alle armi, e che la risposta a tale chiamata si declini in modalità del tutto differenti, è ovvio ancorché rivelatore circa le analogie di queste due parabole, al di là della netta differenza che sta nelle due dimensioni entro le quali si verificano queste due storie. In Joker la gente scende per strada e spacca tutto, emula di questo nuovo (anti)eroe che ha donato loro la libertà insita nella nuova possibilità, che è il caos; a Sanremo il raduno avviene sui social, Twitter in primis, dove ciascuno partecipa a questo nuovo assetto, convergendo in piazza e “distruggendo” la città (il Festival) a mo’ di celebrazione, a suon di teorie (stravaganti o meno), meme, sentenze, insulti e chi più ne ha più ne metta.
Ciò a cui assistiamo in entrambi i casi, per concludere, è lo svolgersi di un Rito. In entrambi i casi le persone, o utenti, percepiscono qualcosa di epocale, o per lo meno, sollecitati a rispondere come se fosse tale, finiscono col desiderare che una sorta di stravolgimento sia avvenuto sul serio; la ritualità è propiziata dalla possibilità di aver assistito tutti insieme al primo passo, l’Introíbo di cui alla Messa Antica, i rispettivi sacerdoti lì a dare inizio a qualcosa le cui fasi successive prevedono la partecipazione dei fedeli.
Annotazioni, quelle sin qui esposte, che mi fanno gioco per un’ultima considerazione. Uno dei limiti con cui non riesco ancora a venire a patti col film di Phillips sta nell’aver implicitamente motivato la follia del Joker; tutto il film rappresenta un processo di razionalizzazione di quell’imprevedibilità che si manifesta, assordante, sul finire. Al contrario, continuo a credere che il non fornire spiegazioni in merito all’operato di un personaggio del genere, non provarci nemmeno proprio, sia l’unico modo per preservarne la portata, mantenendone integro il fascino, che è quello del mistero, per forza di cose irrazionale.
Ebbene, Phillips ci ha invece sottoposto una persona che da un lato è ciò che è per via di uno o più disturbi psicologici, mettendoci peraltro a parte della loro matrice; dall’altro ci mostra, consapevolmente o meno, l’incapacità tipica dell’infante/primo-adolescente, che non accetta che la realtà sia diversa da come vorrebbe, e perciò, anziché tentare di adeguarsi, si pone in aperto antagonismo, trasformando tale realtà nella nemica numero uno. Pur non essendo un esperto di Musica, ma manco alla lontana, mi pare che in un quadro del genere venga fuori il Punk, che è appunto una forma di reazione all’ordine costituito: prendo tutto ciò che per tale ordine è tabù e lo ribalto, con veemenza, sbattendo in faccia tanto a chi regola tale ordine, quanto a chi vi si assoggetta, la sua insulsaggine, oltre che, aspetto più importante, l’insofferenza verso la sua capacità di limitare coercitivamente la libertà di chiunque non rappresenti l’autorità.
Quello di Morgan ieri, sul palco dell’Ariston, si pone come un atto a mio parere largamente ascrivibile a tale fenomeno: punk vero, viscerale, estremo rispetto all’ordinarietà dello status quo, sebbene, ça va sans dire, di gran lunga più soft rispetto all’exploit del Joker. Eppure analogo mi pare quel moto interiore tendente alla (auto)distruzione, il voler trascinare in una spirale in cui a farne le spese sono tutti, compreso chi compie quel dato gesto. Un cupio dissolvi che, comunque lo s’interpreti e lo si accolga, è altra cosa rispetto al proporre dell’innocuo nonché tardivo cosplay di David Bowie col permesso di chi dirige la baracca.