Favolacce, recensione, il romanzo di formazione per adulti dei D’Innocenzo
Tra realtà e letteratura, la verità di un cosmo popolato da orchi, streghe e fantasmi nell’opera seconda dei fratelli D’Innocenzo
Siamo in una periferia romana rivisitata, un luogo dell’anima più che geografico, ispirato all’immaginario di certi sobborghi americani, ai cui accenti Favolacce rimanda quasi per statuto. Raccontare il passato, dunque il presente, di un tessuto sociale eminentemente “nostro”, mediante il filtro di una prosa che viene d’oltreoceano, mescolata al tratto oramai tipicamente romanesco dei fratelli D’Innocenzo.
Ci sono scene rare per il nostro cinema, condensati di prosa, appunto, che senza orpelli e imbellettamenti vanno al cuore di un momento, di una sensazione. Una di queste ce la si è giocata nel trailer: fratello e sorella vengono esibiti come trofei dai genitori, mentre decantano in tono asettico i brillanti voti delle loro pagelle. C’è tutto un sottotesto, un rigurgito di mediocrità in questa triste ancorché efficiente performance, che ci dà la dimensione di cosa un contesto piccolo-borghese sia stato capace di partorire nell’ultimo mezzo secolo; mortificare i figli per danneggiare i vicini, servirsene per mascherare il proprio complesso d’inferiorità, chiaramente confermandolo, senza manco rendersene conto.In un’altra, inquadratura a volo d’uccello, fissa, assistiamo ad una cena apparentemente ordinaria, anzi, quasi un piacevole ritratto di famiglia, tutti e quattro lì a biascicare la carne arrostita nel giardinetto dal padre. Al ragazzino va di traverso un boccone: l’azione che segue è regia pura, cristallina, fatta in economia, per questo più “diretta”. Pochi minuti per farci entrare e subito uscire da un mondo che aleggia ma non si vede, per sottoporci come in un lampo il malessere da cui quel contesto è affetto, e che, gradualmente sta disfacendo ogni cosa.
Un intero isolato, all’americana, in luogo di una categoria, un microcosmo da cui i D’Innocenzo cavano quanto serve loro, né troppo né troppo poco, al fine di metterci a parte di questo nemico invisibile che sta logorando un’intera comunità, dunque le vite di chi ne è imprigionato al suo interno. A farne le spese, su tutti, sono i bambini. Ne La terra dell’abbastanza era l’adolescenza, qui l’infanzia: quasi che la prima fosse il sequel spirituale di quest’opera seconda, si torna indietro di una casella, per comprendere meglio certi processi. Si dirà che il target di riferimento è un altro, che i due protagonisti del primo film dei D’Innocenzo bazzichino un ambiente diverso rispetto ai protagonisti di Favolacce, il che è vero, senonché il fenomeno che affligge l’una e l’altra classe sociale è il medesimo, e lo capiamo in particolar modo accostandoci all’emblematica figura di Vilma (Ileana D’Ambra), contigua a quelle di Mirko e Manolo.
A dispetto del titolo, in Favolacce si sperimenta quel costante senso di minaccia, dal quale si è braccati fino all’ultimo, come se qualcosa d’irreparabile fosse sul punto d’accadere, e di accadere in maniera pirotecnica, spettacolare; insomma, una delle possibili descrizioni di una fiaba, che non per niente in questo caso contempla anche il suo orco o la sua strega, che, con inviti e promesse suadenti, si mette al livello dei bimbi per far loro conseguire il proprio male. Questo rinviare l’inevitabile, a tal punto da spingere a chiedersi se in realtà non si sia già consumato sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgessimo, è uno dei pregi di scrittura più significativi in Favolacce. Lineare il giusto, non nel senso letterario del termine, se vogliamo, la sua struttura procede per intuizioni, bagliori che meglio ci aiutino a capire quale sia la verità di questa vicenda che è sì corale, ma che vede al contempo nei più deboli, cioè i piccoli, le vere vittime.
In tal senso, tuttavia, non assegnerei così facilmente ai cosiddetti adulti tout court il ruolo di carnefici; ammesso che si possano definire tali, in primis i genitori, lo diventano loro malgrado, certamente non prima di essere a loro volta passati dallo stadio di prede, incalzati già loro da qualcuno o qualcosa che li ha relegati a quello stato di pericolosa inconsistenza morale. Non personaggi positivi, perciò, ma nemmeno negativi, come si può benissimo evincere non solo dal personaggio di Elio Germano, ma ancora di più da quello interpretato da Gabriel Montesi: il suo Amelio, papà di Geremia, è una maschera struggente, ora deprecabile, ora capace di una dolcezza altrettanto arcigna.
Tutto questo, come già evidenziato, per arrivare al cuore della questione. Se ciò che si vede in Favolacce rappresenta infatti un pugno allo stomaco (e così è), a tale esito si perviene poiché quanto ci troviamo al suo interno è impregnato di un’intrinseca sincerità. Manca del tutto l’affettazione di quei drammoni che in scenari precari, tossici perfino, ci sguazzano, proprio perché a molti, di certe nefandezze, piace il risvolto estetico, che quasi sempre si risolve in un’etica dello sguardo che è squallida. Dalla terribile parabola di Favolacce emerge invece il dolore nel raccontarla, che spiega poi la semplicità a tratti disarmante del suo registro. Un dolore che appare appunto sincero, poiché, se davvero vuoi farti capire, anche a costo di destabilizzare, vuol dire che quantomeno non hai niente da nascondere. Ed è giunto il tempo, anche se può sembrare tardi, di dire le cose come stanno, soprattutto a partire dalle immagini che produciamo e del perché lo facciamo.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
Favolacce (Italia/Svizzera, 2020) di Fabio e Damiano D’Innocenzo. Con Elio Germano, Tommaso Di Cola, Giulietta Rebeggiani, Gabriel Montesi, Justin Korovkin, Barbara Ronchi, Lino Musella, Barbara Chichiarelli, Max Malatesta, Ileana D’Ambra, Cristina Pellegrino, Giulia Melillo, Laura Borgioli, Aldo Ottobrino, Sara Bertelà, Enrico Pittari, Federico Majorana e Giulia Galiani. Disponibile on demand da lunedì 11 maggio 2020.