45 anni per Quentin Tarantino
Che la sua carriera sia iniziata col botto e abbia proseguito con l’aria di mito e culto, non ci sono dubbi. Che ormai qualcuno si sia stufato di lui è allo stesso modo indiscutibile. A 45 anni, Quentin Tarantino continua ad essere discusso, oggi più di prima. Se Le iene è stato l’esordio infuocato, Pulp
Che la sua carriera sia iniziata col botto e abbia proseguito con l’aria di mito e culto, non ci sono dubbi. Che ormai qualcuno si sia stufato di lui è allo stesso modo indiscutibile. A 45 anni, Quentin Tarantino continua ad essere discusso, oggi più di prima. Se Le iene è stato l’esordio infuocato, Pulp Fiction la conferma assoluta, poi il buon Quentin ha sparato una serie di cartucce che non sempre sono andate a genio a critica e pubblico, anche se il suo nome continua ad essere importante e riconosciuto.
Se Pulp Fiction rendeva, rispetto al grandissimo esordio, ancora più espliticite le ossessioni e lo stile (gli stili) del suo cinema, è da Jackie Brown che Tarantino prende in contropiede chi aspetta il suo nuovo lavoro. La storia della hostess inerpretata da Pam Grier si calava su toni notturni e malinconici che nessuno si sarebbe aspettato, si dilatava in discorsi che tendevano a lasciare spesso la carica violenta fuori campo, e i dialoghi infuocati prendevano vita sotto le luci dei bar e delle note di Inside My Love di Minnie Ripert.
Un flop (ovviamente immeritato). Da qui, la necessità di tornare con qualcosa di pensato e potente, e soprattutto con la sua musa ispiratrice, quella che mentre si faceva di coca ballava con Girl You’ll Be a Woman Soon. Ci vollero sei anni per far uscire Kill Bill, diviso in due volumi per la durata pachidermica. Il primo violentissimo, giocoso, con una donna vendicativa senza un nome. E lì dove il primo volume esalta lo spettatore con un ritmo sostenuto, sangue che spruzza come geyser e musica emozionale, ecco che si contrappone il Volume 2: il film è lo stesso (non credete a chi vi dice che sono due film diversi), ma è l’altra faccia della medaglia.
Dopotutto, Jackie Brown era l’altra faccia di Pulp Fiction, così come il secondo “tempo” di Kill Bill è l’altra faccia del primo. Dopo aver giocato coi personaggi, abbastanza bidimensionali, in un teatro fatto di cartoon, arti marziali, manga, bianco e nero e colori, Tarantino decide di prendere ancora una volta di sorpresa chi lo guarda, ma con la scelta più giusta che a quel punto potesse fare: dare uno spessore alla sua Sposa.
E di Grindhouse – A prova di morte che dire? Si è detto tutto, ma nessuno si smuove dalla sua posizione, e per i prossimi dieci – venti anni nessuno lo farà. Sarà il tempo a dire quanto il pubblico e la critica ama le stupende ragazze di Quentin, i suoi fiumi di alcool, le sue lap dance, i suoi omaggi e il suo giocare, con lo script e con la tecnica. Ma attenzione, non in modo fine a se stesso come troppi tendono a dire subito. Grindhouse – A prova di morte è la prova del nove, incompresa da molti e fraintesa da troppi: qui il cinema di Tarantino si rivela, e diventa summa.
E’ da Le iene che il regista non ha fatto altro che teorizzare sul concetto di cinema, e non solo citare a caso rovistando fra le sue migliaia di VHS e poster (certo, lui innanzitutto si diverte come un bambino: e noi con lui). A prova di morte ha due facce della stessa medaglia in un film da 100 minuti, se la ride di gusto, gioca coi suoi personaggi a due dimensioni, ma è una delle opere postmoderne più serie degli ultimi anni. Una lucida opera teorica sul ieri e sull’oggi, su ciò che era, su ciò che è e su ciò che sarà il cinema (ma Quentin, beffardo fino all’ultimo, fa morire lo stuntman: peccato che sia ucciso da donne che lavorano dietro le quinte nel mondo del cinema). Si discuterà per sempre su Tarantino, perché è uno dei pochi che tenta di sfruttare al suo massimo la settima arte. Tra Down in Mexico e un bicchiere di Tequila Cabo Wabo ci si rende conto di una cosa: come dice Ghezzi, il cinema di Tarantino è A PROVA DI VITA.