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La velocità della luce: trailer, foto, locandina e curiosità

Il regista italiano Andrea Papini prova a portare al cinema un film noir. Un film italiano noir. Siamo sempre felici di vedere qualche esperimento nel nuovo cinema italiano ed ecco La Velocità della Luce, interpretato da Patrick Bauchau, Peppino Mazzotta e Beatrice Orlandini.La trama: Mario (Peppino Mazzotta) ha 35 anni e viaggia sull’autostrada con un’auto

di carla
11 Aprile 2008 08:07

la velocità della luce rinaldo

Il regista italiano Andrea Papini prova a portare al cinema un film noir. Un film italiano noir. Siamo sempre felici di vedere qualche esperimento nel nuovo cinema italiano ed ecco La Velocità della Luce, interpretato da Patrick Bauchau, Peppino Mazzotta e Beatrice Orlandini.

La trama: Mario (Peppino Mazzotta) ha 35 anni e viaggia sull’autostrada con un’auto sportiva. Adora le macchine ed è per quello che rimane colpito da una Bentley Continental coupé del 1992, valore di mercato 190.000 euro. Mario decide di inseguirla. Grazie alla telefonista Beatrice (Beatrice Orlandini) scopre il cellulare di chi sta al volante, lo chiama e… inizia un dialogo decisamente inquietante.

Mario, spaventato, si ferma in una piazzola poco prima di un tunnel, in preda ad una crisi d’ansia. Non sa che l’incubo è appena iniziato. Rinaldo (Patrick Bauchau), proprietario della Bentley, si fa vivo.

Dopo il salto trovate alcune foto, la locandina, la presentazione del regista ed alcune curiosità sulla pellicola. Il film esce il 18 aprile. Questo il sito ufficiale del film dove trovate anche il trailer.

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Come è nato il soggetto
L’idea è nata in occasione dei miei tanti viaggi tra Milano a Roma, negli anni che vedevano comparire i primi telefonini. Osservavo le altre automobili e mi domandavo chi potesse essere alla guida ora di questo, ora di quell’altro mezzo. Che faccia potesse avere quel guidatore di Mercedes, o quell’autista di camion. Non ci si immagina quasi mai l’altro in momenti diversi da quello che stiamo vedendo. Pensavo, per esempio, chissà che faccia aveva da bambino questo autista di camion dall’espressione patibolare… Volevo descrivere la distanza, fisica ed emotiva tra i protagonisti partendo da due automobili, utilizzate nella valenza simbolica di corazze, fino ad arrivare lungo la narrazione, al contatto fisico: dalla pelle metallica alla pelle reale. Quelle scatole che contenevano altri esseri viventi in viaggio nella mia stessa direzione mi sembravano interessanti metafore per parlare della realtà. E l’autostrada, con il suo mondo di addetti e servizi a tutti ben noto, fabbrica disposta lungo linee che abbracciano gli stati e le culture, poteva fungere perfettamente come elemento necessario per permettere allo spettatore di identificarsi nel racconto cinematografico.

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L’idea artistica
Mentre i pensieri si sviluppavano il viaggio procedeva inarrestabile, quasi rappresentasse esso stesso la direzione – irreversibile – del tempo. Nacque così l’idea di lavorare su più livelli, simbolici e reali, per parlare della ricerca dell’assoluto, e della conseguente infelicità. Della banalità del male legata all’impossibilità di amare. Di due protagonisti in perenne migrazione volontaria, per sfuggire all’identità fissata dai luoghi e dal tempo.
Poi il soggetto si è sviluppato prendendo una serie di pieghe strane e molteplici, che con lo sceneggiatore Gualtiero Rosella abbiamo cercato di mantenere in equilibrio. Ci ha accompagnato la volontà di lavorare sull’uso ambiguo delle parole pronunciate dai protagonisti, sempre mezze vere e mezze finte, scollate dalla realtà come spesso succede oggi. Ma trasmesse alla velocità della luce, come dice il titolo del film. La velocità della luce, che a quanto si sa fino ad ora, non può essere superata se non nell’universo dei numeri immaginari.

la velocità della luce beatrice

La struttura e i personaggi
La velocità della luce parte così da un’iperbole narrativa per indagare la realtà. Una semplice struttura noir a tre – il ladro d’auto ipocondriaco, l’ambiguo chirurgo, la giovane telefonista – si propone di approfondire ancora una volta le zone grigie dell’animo umano.

La messa in scena vuole ipnotizzare lo spettatore con un complesso lavoro sulle luci e sulle voci degli attori, consentendo in questo modo di veicolare di nascosto informazioni e temi più complessi.

I dialoghi tra i personaggi, sfuggenti, dai contorni ambigui, a brandelli come nello stile di tante nostre conversazioni, si svolgono all’interno di quelle arterie moderne che sono le autostrade, lungo le quali il tempo sembra dilatarsi e predispone ad una maggior curiosità e disponibilità verso il mondo e le sue voci nascoste.

Mario, il protagonista, giovane tecnologico, reso fragile da banali nevrosi (la claustrofobia e l’ipocondria che scattano quando qualcosa non va secondo il previsto), incontra lo sconosciuto Rinaldo viene subito attratto dalla sua sicurezza. Quest’ultimo è talmente inaridito dai traumi della vita, simbolicamente rappresentati dalle cicatrici sul corpo e dalla protesi d’acciaio al posto di una gamba, che risulta insensibile a tutto. Quest’uomo anziano ma ancora affascinante vorrebbe fermare il tempo, o almeno trovare un ordine a un passato impersonificato da un amore di tanti anni prima. Vorrebbe bloccare la propria decomposizione fisica, accelerata da un esperimento chimico effettuato in gioventù. Esperimento che lo costrinse ad allontanarsi dalla donna amata. E per fare ciò compie, come un ragno che tesse la sua tela, quelle azioni – violente – che gli permettono di sopravvivere.

I personaggi di questa storia compiono gesti paradossali, al limite della realtà, ma si muovono in un mondo conosciuto (l’autostrada, gli autogrill, i ristoranti, l’albergo), utilizzano oggetti di uso quotidiano e familiare (le automobili, il telefono), lavorano. Beatrice, spalla e poi motore narrativo della storia (è a causa sua che Mario finisce nella trappola di Rinaldo, diventando vittima del proprio stesso gioco), è ben conscia della ambiguità delle sue emozioni, attratta contemporaneamente da entrambi gli uomini.

Tutti e tre hanno nella memoria l’idea di qualcosa di meraviglioso andato perduto. Non sanno che la separazione tra loro li spinge a ricercare anche attraverso la violenza una via di uscita – disperata – a questa condizione di solitudine obbligata, rotta solo per pochi istanti negli attimi dell’amore.

E proprio qui, nella memoria di una perfezione perduta, esiste il riscatto all’orrore. Riscatto che ha lasciato il suo segno malinconico e struggente nella dolcezza dei paesaggi, nella profondità delle voci, nella sensibilità dei tre protagonisti, nella soavità delle musiche che accompagnano questa storia di impossibilità. Solo l’umorismo nero della chiusa, affidato ad un cinico Jodel tirolese, ci permetterà di sorridere amaro sui limiti delle nostre emozioni.

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La realizzazione del film
Il film è stato girato in cinque settimane delle quali la prima in autostrada, tra Roma Genova e Parma, realizzando i contributi che sono stati poi utilizzati nelle riprese in teatro. Qui abbiamo impiegato, con le moderne tecnologie digitali, l’antica tecnica del “trasparente” tanto amata da Hitchcock (oggi denominata retroproiezione). La macchina da presa – digitale anch’essa con ottiche cinematografiche – è stata montata su una steadycam, mentre le automobili con gli attori venivano “mosse” da esperti macchinisti e sullo sfondo correva la scenografia, armonizzata con sapienza dal bravissimo direttore della fotografia Benjamin Nathaniel Minot. In tutto non si è usato né un metro di nastro né un metro di pellicola, esclusa quella della stampa finale realizzata nei laboratori Technicolor: tutto il lavoro è stato elaborato su file contenuti su hard disk.

Le citazioni
Non amo le citazioni cinematografiche. Se proprio devo cercarne una devo rifarmi alle mie prime esperienze che si sono formate in mezzo alle sparatorie dei western italiani di serie B degli anni Sessanta, film che per me erano bellissimi. Anzi, poiché erano la maggioranza dei film che si producevano in quel periodo credevo che al cinema ci fossero solo western, e non capivo perché li chiamassero con disprezzo “spaghetti western”. In quelle trame due uomini si sfidavano senza sapere perché: uno più giovane, l’allievo, e un altro più anziano, il maestro. Ogni tanto, però, tra cavalcate e sparatorie c’erano sempre quelle strane scene, una in ogni film, durante le quali un uomo e una donna mezzi nudi si abbracciavano ed io bambino non capivo perché e cosa c’entrassero.

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Proprio la facilità di cambio delle scenografie, realizzate mediante videoproiezione digitale in alta definizione, ci ha permesso invece qualche inserimento colto rubato alla pittura: oltre alla “Lezione di anatomia” di Rembrandt, incollata sulla misteriosa scatola medica utilizzata da Rinaldo – Patrick Bauchau, compaiono brevemente “Byblis Chageé en fontane” (1792) di Pierre Henri de Valenciennes (dopo la crisi d’ansia di Mario – Peppino Mazzotta) che ci ricorda il secolo del romanticismo, e “L’isola dei morti” di Arnold Böcklin (prima della scena del gatto nero), che accompagna la melanconia del protagonista.
Le citazioni volontarie provenienti dalla letteratura “altissima”, nate per gioco, sono per lo più mascherate nei bigliettini d’amore dei cioccolatini. Per chi volesse vedere soddisfatta questa piccola curiosità enigmistica elenco qui di seguito tutti i riferimenti:

“Dolcezza, vi amo oltre il pensiero”, William Shakespeare, da Troilo e Cressida, primo bigliettino letto da Rinaldo.
“Mia cara signora, su ciò di cui non si può parlare si deve tacere” di Ludwig Wittgenstein, pronunciato in tedesco da Rinaldo mentre si allontana sempre più veloce, nella galleria che scatena la crisi d’ansia di Mario.
“Le donne, come i sogni, non sono mai come le vorresti” Luigi Pirandello;
“L’amore, come cibo, finisce sotto il dente della fortuna” William Shakespeare, Troilo e Cressida, secondo bigliettino d’amore letto da Rinaldo alla fine della cena.
Oltre a queste citazioni ci sono due preghiere in tedesco pronunciate, su invenzione attoriale di Bauchau, in occasione della frenata dietro all’autobus (“Madre, non sono ancora pronto”), e sul letto prima della scena d’amore (“Madre, il tormento è durato troppo, lasciami morire, lasciami morire”). Volontariamente non sono state sottotitolate. Infine c’è il bigliettino allegato all’ultimo cioccolatino che Rinaldo legge prima di scomparire. Non sapremo mai quello che c’era scritto. Lo accartoccia e lo butta nel posacenere.

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La colonna sonora
Oltre alla splendida colonna originale composta da Fabrizio Bondi e Susanna Stivali edita da Warner Chappell, nel film sono presenti le seguenti citazioni:

“Qui la voce sua soave” da “I puritani” di Vincenzo Bellini cantata in sottofondo da Maria Callas nell’officina del meccanico;

“Sabbato Sancto, sicut ovis ad occisionem” (Sabato Santo, come l’agnello che deve essere ucciso) di Carlo Gesualdo da Venosa, che accompagna il vertiginoso inseguimento finale.

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