Home Festival di Venezia Venezia 2019, A Herdade, recensione – dramma familiare che attraversa mezzo secolo portoghese

Venezia 2019, A Herdade, recensione – dramma familiare che attraversa mezzo secolo portoghese

Gli effetti di un Portogallo che cambia sulla famiglia di un ricco proprietario terriero. Leggete la nostra recensione di A Herdade

pubblicato 5 Settembre 2019 aggiornato 29 Luglio 2020 17:02

A João Fernandes tocca imparare in fretta che nella vita prima o poi tutto finisce. Siamo nel 1946 e questa lezione gli viene impartita dal padre, affinché cresca consapevole, forte, per prendere un giorno le redini di quelle terre che sembrano non avere confini. Salto. È il 1973. Quelle terre oramai appartengono a João, che, come desiderato dal padre, le governa con mano ferma, spirito indomito anche dinanzi alle pressioni di un ministro portoghese che pretende da João un appoggio pubblico in vista della campagna in Angola.

In un primo momento João si rifiuta, ma, da persona intelligente, sa che l’essere inflessibili non porta da nessuna parte, e che esistono casi in cui qualche concessione s’ha da fare. E allora cede; cede nel momento più sbagliato, ossia alle porte della Rivoluzione dei Garofani, quella per cui il Times, nel 1975, un anno dopo, titolerà «Il capitalismo è morto in Portogallo». A João il compito di resistere anche a questo stravolgimento, ma soprattutto a ciò che comporta, all’immane costo di questo adattamento forzato.

A Herdade risente di un leggero ma percepibile scarto tra l’ambizione di portare su schermo, per quanto in sintesi, parte della Storia recente del Portogallo, e le misure adottate, il suo far ruotare tutto attorno a questa tenuta. E dire che l’intuizione non è affatto malvagia: l’idea infatti di questo microcosmo a sé stante, in cui l’unico a dettare legge è João, dà adito a diverse soluzioni e temi di spessore. L’isolamento, quel senso di claustrofobia dato da un contesto così circoscritto, retto da una persona sola, disposta a tutto peraltro pur di mantenere qualcosa che, dal momento stesso in cui ne è entrato in possesso, ha cominciato per forza di cose a sfuggirgli di mano, a deperire.

Un processo irreversibile, spossante, foriero di conflitti effettivamente terribili. João non sarà infatti una brava persona, ma gli si deve concedere l’attenuante dell’essere schiavo, totalmente assoggettato a ciò che ha ereditato, educato all’idea che fosse suo compito precipuo difenderlo dalle influenze esterne. Una missione al di là delle forze di chiunque, ed infatti di errori João ne commette tanti, per di più irrimediabili, sebbene, altra sua convinzione, sia quella di credere che non vi sia problema che non si possa risolvere. Prima o poi, manco a dirlo, toccha anche a lui scoprire che non è esattamente così.

La sproporzione a cui ho alluso poco sopra, tra le ambizioni e la realizzazione, è dovuta per lo più al respiro corto di un film il cui punto di forza, ossia l’ambientazione, da cui scaturiscono le cose più riuscite del film, tenda al tempo stesso ad essere un limite, seppur indirettamente. È tutto troppo piccolo, dando l’impressione di un rimaneggiamento che non consente alla vicenda di attingere a pieno al suo potenziale. Su tutti, a suo modo indicativa ci pare la scena in cui un pullman di lavoratori irrompe nel piazzale della tenuta, forti del cambio di regime, per pretendere nuovi posti di lavoro. Dovrebbe essere un momento chiave, cosa che di fatto è, ma far passare quel cambiamento epocale, quello sconvolgimento generale, che è anche personale nell’esistenza di João, a fronte di una messa in scena così basilare lascia un po’ interdetti.

Quando poi si passa all’ultimo segmento di questa storia, ed è perciò tempo di tirare le somme, a Guedes non resta che ripiegare nel melodramma familiare, che ha senz’altro un suo perché, chiosa consequenziale a tutta una serie di scelte di cui siamo stati messi ampiamente a parte, malgrado fin lì ci si sia regolati come se lo spettatore non avesse inteso certi segreti che tanto segreti non sono. È evidente non fosse nelle intenzioni degli autori, ma A Herdade forse difetta di quel pizzico di epicità di cui una vicenda che si dipana per più generazioni, cercando peraltro di raccontare un Paese, ancorché lasciandolo sullo sfondo, avrebbe senza dubbio beneficiato, donando spessore e volume ad una parabola d’innegabile interesse, ma che non riesce ad andare oltre una certa soglia.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Federico” value=”5″ layout=”left”]

A Herdade (Portogallo/Francia, 2019), di Tiago Guedes. Con Albano Jerónimo, Sandra Faleiro, Miguel Borges, Ana Vilela da Costa, João Vicente e João Pedro Mamede. Concorso.

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