Army of the Dead, recensione del film di Zack Snyder
Il solito sguardo ultra-saturo di Zack Snyder irrompe sul mondo zombie con Army of the Dead, in cui c’è troppo eppure non basta
Un gruppo di militari trasporta qualcosa di cui ovviamente non sono al corrente: due di loro ci scherzano un po’ su, «forse non dovremmo trasportare questa cosa, qualunque cosa sia», un riferimento se vogliamo un vagamente metatestuale, consapevoli come sono i due soldati di una caterva di riferimenti analoghi, per lo più tratti da altri film. Accade qualcosa, il convoglio è costretto a fermarsi, e in men che non si dica siamo catapultati nei titoli di testa di Army of the Dead, come sempre sgargianti con Zack Snyder: orde di zombie che hanno devastato Las Vegas, città di fatto oramai abbandonata a sé stessa dal governo. Qui a Scott Ward (Dave Bautista) viene data una missione da un tizio piuttosto abbiente, la quale consiste nel recuperare duecento milioni di dollari stipati nel caveau di uno dei palazzi sulla Strip; giusto il tempo di assemblare un team di spericolati ed inoltrarsi in una missione suicida.
Da notare che la parte in cui Ward viene contattato dal tizio pieno di soldi, tale Tanaka (Hiroyuki Sanada) giunge ben oltre i tre quarti d’ora abbondanti. Questo per porre di sfuggita l’accento su un film di due ore e mezza che, tutto considerato, avrebbe beneficiato non poco di un prologo più asciutto, visto e considerato peraltro che quanto contenuto in questa prima parte si rivela pressoché trascurabile rispetto a tutto il resto. Fa molto di più la sequenza evocata sopra, quella dei titoli di testa: senza star lì a spiegare, vediamo i protagonisti sopravvivere a orde di zombie, e si capisce che gli eventi mostrati vengono prima di quanto ci accingiamo a vedere.
Army of the Dead è uno strano animale, uno di quelli che vuole procedere per conto suo, espressione di una sensibilità che tende sempre a saturare oltremodo i propri racconti, e questo è proprio Snyder. Un regista a cui non manca l’occhio, guai a non riconoscerglielo, ma il cui discernimento rispetto agli elementi da gettare nella mischia si rivela anche stavolta deficitario. Voglio dire, pure qui c’è tanto, troppo e tutto in una volta. Si potrebbe soprassedere su certe licenze, quantunque strutturali, dato che la trama ruota attorno a questa nuova specie di infatti, non più zombie, che rispetto a quest’ultimi non solo sono molto più dotati fisicamente ma anche intellettivamente, per non dire altro onde evitare di svelare troppo. Una tentazione tuttavia alla quale è difficile resistere, perché buttare lì una traccia del genere, sebbene fatta rientrare nell’ambito di un’evoluzione che comunque non viene in nessun caso supportata da alcun riferimento specifico, davvero mette a dura prova.
Quasi non si parlasse più di zombie ma di supereroi, qui Snyder si lascia davvero andare, e con ciò ancora siamo sulla carta, ben prima perciò dell’aspetto visuale. A conti fatti Army of the Dead rappresenta l’ennesima conferma a riprova del fatto che lo sguardo, l’impeto di un regista come Zack Snyder necessita disperatamente di essere contenuto, arginato da una scrittura che letteralmente gli impedisca di partire per la tangente. Non è poi così difficile figurarsi quanto il suo immaginario ne beneficerebbe a fronte di una serie di paletti che ne smorzino l’euforia più che l’entusiasmo; perché si vede che a girare certe scene ci si sia divertiti parecchio, solo che ahimè ciò non significa in automatico che sia lo stesso per lo spettatore, sottoposto a un tour de force, ripeto, non tanto (o non solo) visivo.
Il problema anche stavolta, come in Sucker Punch, per citare un progetto che senz’altro è stato molto a cuore, è che manca una coerenza interna al mondo che Snyder intende descrivere ancor prima che mostrare. Non si tratta di verosimiglianza, si badi bene, perché sennò è inutile anche solo accostarsi a certi horror o a certi film di fantascienza. Non si può tuttavia glissare su un’accozzaglia di componenti così concepita e messa insieme senza premurarsi di conferire a tutto ciò un briciolo di consistenza. I film di questo regista contemplano sempre (o quasi) almeno una scena degna di nota, laddove addirittura più di una; senonché è estremamente raro che certi passaggi indovinati leghino con tutto il resto, finendo inizialmente per funzionare a sé stanti, salvo poi perdere d’incisività proprio perché già da quella successiva, o poco più avanti, si viene già scaraventati altrove, creando degli inutili corto circuiti che remano contro il film stesso.
Se evoco poi la mancanza di continuità rispetto a quel genere nel genere che sono gli horror a tema zombie non lo faccio certo perché sia indispensabile seguire scrupolosamente l’approccio di Romero; al contrario, tocca semmai farlo per sgomberare il campo da un potenziale equivoco, ossia che il vizio reale stia lì, nella diversa prospettiva. Anche perché, salvo qualche momento, tipo quello a inizio spedizioni, con gli zombie dormienti, non è che la tensione faccia granché capolino nel corso del film. Quindi, per quanto La terra dei morti viventi sia emblematico in rapporto a come si possano introdurre novità sostanziali internamente a un discorso che comincia da lontano, quello sugli zombie, c’è modo e modo. Lì l’evoluzione di Big Daddy viene introdotta con molta più cognizione di causa, volendo persino con una certa continuità; ma soprattutto, ci vengono sottoposti elementi a sufficienza per acclimatarci con l’idea di questo salto evolutivo, in special modo rispetto ai tempi e alle modalità attraverso cui Romero espone il tutto.
Qui invece sono più delle folate, quasi degli schiaffi che Snyder infligge allo spettatore, al quale viene non chiesto bensì imposto, per quanto implicitamente, di ingollare tutto e il suo contrario senza farsi distrarre. Ci si potrebbe pure provare, solo che non è possibile, troppo è lo sforzo che nemmeno troppo paradossalmente richiede un abbandono del genere; dall’uso delle musiche alla gestione dei toni, con quegli accenti da commedia messi lì solo perché debbono starci, passando proprio dallo sbilanciamento quanto alla struttura del racconto (sopra si è detto sul prologo fin troppo diluito). In tal senso, per quanto mediocri, i Resident Evil sono più onesti, seguono una linea più o meno accettabile ma per il resto puntano solo ed esclusivamente sullo spettacolo. Spettacolo che qui va a scoppio, come l’elicottero su cui Ward e soci dovrebbero tentare la fuga una volta portata a termine la missione; sprazzi e nulla più. Non abbastanza per uscirne sinceramente appagati.
Army of the Dead (USA, 2021) di Zack Snyder. Con Dave Bautista, Ella Purnell, Ana de la Reguera, Hiroyuki Sanada, Theo Rossi, Huma Qureshi, Garret Dillahunt, Nora Arnezeder, Michael Cassidy, Omari Hardwick, Tig Notaro, Matthias Schweighöfer, Lora Martinez-Cunningham, Raúl Castillo e Lyon Beckwith. In esclusiva su Netflix da venerdì 21 maggio 2021.