Assisi primo piano sull’autore: Liliana Cavani e il suo ritmo
Ecco il capitolo che ho scritto, raccontando la mia esperienza di sceneggiatore con la Cavani e il suo cinema, per il libro a più mani dedicato alla regista pubblicato per la rassegna “Primo piano sull’autore”
Liliana Cavani era il comandante nella barca e io ero il mozzo. La barca meravigliosa, che ancora filava veloce, in un cinema che era diverso e ha conosciuto tempeste e molte bonacce. Oggi il cinema si guarda intorno, preoccupato; anzi s’interroga, per sapere chi era, chi è, cosa sarà. Ogni tanto arrivano onde come cavalloni che fanno tremare ma in poco tempo si ridimensionano, scivolando via, archiviate. Ad esempio sembra finita l’irruzione intensa di manuali su come si scrive un film, quasi tutti di provenienza americana, pensando ij realtà alla bajadera del momento, la fiction tv.
Ne ricordo uno, tra i più famosi, interessante e ben scritto, intitolato Story di Robert McKee, venduto in Italia, in migliaia di copie, al cui si affiancavano vari inviti ad insegnare cosa è bene mettere sulla carta, prima dei ciak, sia sul set del cinema o sul set della tv, che sono cose diverse. Una montagna di carta. E mitologie che sono appassite: “Come scrivere una grande sceneggiatura” di Linda Seger. Esempi di insofferente per la celluloide di cui era fatto il cinema, per i suoi materiali, i supporti del cinema che si stava convertendo frettolosamente al digitale, dimenticando, o con confezionando formule più che pensieri.
Forse era una moda, come tante altre. I massmedia volentieri si nutrono di bigini,svelti , appetitosi, anche utili, che però non spiegano i segreti della scrittura e della nascita di un film in tutte le tappe che lo riguardano; e non sanno dire quale sarà la riuscita, la qualità di un’opera, alla prova del grande schermo, sovrano mai deposto. La prova del nove. Sono fasi importanti di un divenire, aiutano a capire, e andare oltre; e al confronto sembrano meglio allo scopo di raccontare le esperienze compiute i libri che sono usciti nel nostro Paese, esperienze offerte con cautela, se non con umiltà.
La ragione è molto semplice. Tutti, o moltissimi, pensano che il regista sia il migliore mestiere del mondo; e non c’è dubbio che lo sia. Tutti pensato che lo sceneggiatore sia un oscuro minatore intossicato dalla paura di sacrificarsi per la maggior gloria del deus ex machina, appunto il regista, ultima forma di dittatura (sul set del cinema), secondo i diktat di una critica in cerca dell’Autore, dagli anni del secondo dopoguerra quando i Cahiers du cinema, dalla Francia, affissero sul muro delle intenzioni futuribili il manifesto della “politique des auters”. Una grande stagione con Francois Truffaut, Eric Rohmer e altri, che però si è allontanata da noi.
Come laboratorio, resistono invece non solo nella memoria i libri di sceneggiatori italiani, come ad esempio Ugo Pirro, Age & Scarpelli. Magnifici racconti, tra aneddoti e vita di gruppo nella Roma fino a dopo “La dolce vita”, aneddoti, trovate, avventura ghiotta, dirompente ironia con il pizzico della saggezza.
I viali del tramonto sono lo stimolo del cinema, non la sua fine; in fondo al viale non ci sono le tecniche. La “vecchia” rivoluzione del cinema continua nelle riprese e in tutte la fasi per arrivare alla parola fine in un film, sempre in una continua ricerca di idee e soluzioni, oltre le ricette, oltre le abitudini. Cinema come arte, e non banale comunicazione, ovvero mezzo senza fini artistici, corteggiatore delle tv, media, medio, basso; mai alto, livellatore.
Lavorando con Liliana per anni, primo film I cannibali (1969), il viaggio nell’arcipelago di una ricerca senza posa fra temi capaci di emozionare, e fare spettacolo, è accaduto qualcosa di molto importante che non mi sarei aspettato. Ho imparato che “sceneggiare” significa soprattutto possedere il puntiglioso desiderio di produrre sintesi. Far quadrare idee di storia e di vita con forme convincenti su cui arrivare; tra dubbi, domande, altri dubbi, risposte, ancora domande, senza pausa.
Un’ intransigente voglia di non accontentarsi e mettere sempre, tutto, al centro di una discussione, di ogni confronto. Trovare insieme un ritmo e rimuovere cedimenti, illusioni, provvisorietà. Un ritmo interiore che fluisca nella penna, nelle prime battiture sulla macchina da scrivere (la tastiera del computer era ancora
lontana).
Un “ritmo interiore”? Cos’è? E’ il contrario del ritmo imposto, grande tentazione del cinema, che oggi ha vinto su tutti i fronti, identificandosi con la velocità di scene e dialoghi, accelerati, spesso buttati via, dalla cinepresa e dal montaggio. Per il terrore di essere troppo lunghi, seduti, e perciò “lenti”, “noiosi”, parole classiche di reazioni superficiali in nome del “ritmo imposto”, astratto e inesistente.
In contrasto il “ritmo interiore” è più veloce ma non inventato e artificiale. E’ un percorso di sintesi, verifica di fatti, situazioni, idee, personaggi; ipotesi da approfondire, senza illustrazioni ma aderenze creative alle storie rappresentate. Chi ha visto i film di Liliana, se n’è accorto e se ne accorge, in tutti, anche nei più recenti. Si tratta di frutti, maturati, distillati, con una generosa cura che fa i conti con i tempi di scrittura e di preparazione di ogni film.
Prima del nostro “I Cannibali” -una Milano cosparsa di cadaveri per ordine del potere, una rivolta sul ricordo di Antigone-, la regista aveva realizzato per la Rai diversi documentari storici (Il Terzo Reich), sociali La casa in Italia (ostacolato da censure) e La donna nella Resistenza), e due film: il primo Francesco (1966) con Lou Castel e Galileo (1968, mai trasmesso in Rai, presentato alla Mostra di Venezia).
Ci siamo conosciuti in questo periodo, avevo difeso le opere sui giornali su cui scrivevo, mi piaceva il linguaggio asciutto, il gusto mai premeditato, spontaneo, coerente, di provocazioni valide, ben spiegate, concrete, fuori da conformismi e anticonformismi (altra faccia della medaglia) che nascevano e si intrecciavano. Il periodo della contestazione, con le sue contraddizioni.
Sarebbe utile un racconto più approfondito, e prima o poi, forse lo farò. Esistono libri consultabili, da qualche tempo, sul cinema di Liliana, ad esempio: Ciriaco Tiso, “Liliana Cavani” (1975); Gaetana Marrone, Lo sguardo e il labirinto” (2003); Francesca Brignoli, “Ogni possibile viaggio” (2011). Sarebbe utile anche che io mi diffondessi su una produzione di film che arriva a “Einstein” (2008) e a“Francesco” (2014), il terzo dedicato a una figura che non è soltanto della Chiesa. Ma sarei costretto a sorvolare sugli anni della nostra collaborazione in cui il lavoro di scelta dei soggetti e la stesura dei copioni è stata fondamentale per l’intera filmografia della regista.
Ricordo invece un film, L’ospite (1971), la storia di una donna che esce da un manicomio, Lucia Bosè e cerca di reinserirsi nella società; toccante e sensibile, inserito nella serie “Sperimentali Tv” di cui mi occupavo, serie che in precedenza aveva prodotto il primo lavoro, molto bello, “La fine del gioco” di Gianni Amelio, oltre che opere di registi italiani e internazionali come Jean Luc Godard, Glauber Rocha, Marco Ferreri.
La prima domanda che si pone in quel periodo che fa avanzare il lavoro della Cavani è semplice e me la pongo spesso, voltando lo sguardo indietro a un cinema italiano in una situazione che si stava chiarendo a poco a poco, faticosamente. Cosa poteva, cosa voleva essere, diventare un grande cinema, amato in tutto il mondo e dagli stessi italiani tra discussioni infinite? I titoli parlano da soli. Milarepa (1973) realizzato sul consiglio di Elsa Morante che ci indicò un libro pubblicato da Adelphi. La storia di un giovane che cerca risposte. Le risposte. Importanti.
Perché in quegli anni i giovani, non solo in America dove erano suggestionati da poeti come Allen Ginsberg aderenti al buddismo, guardavano all’est del mondo, all’Asia e ai paesi non interessati allo sviluppo industriale come la Cina comunista dopo Mao Tse Tung o l’India o il Giappone? La risposta è nel film che Pier Paolo Pasolini vide e ne intuì il filo di passioni inedite che stavano germogliando nella terra dei cristianesimi, l’Occidente che oggi arranca, voglia di pulizia, incanto, scommessa di esistenza.
Il compito che ci eravamo caricati come autori era difficile e il filo di passioni lo ambientammo in una città italiana da cui un giovane coinvolto in un incidente stradale si allontana per entrare nel racconto di ricerca su montagne impervie. Girammo su consiglio di Fulco Maraini, orientalista, padre della scrittrice Dacia, non nel Nepal, poiché dopo uno straordinario, lungo, fecondo, sopralluogo, scoprimmo costi proibitivi, ma un altopiano d’Abruzzo. “Puro Nepal” disse Fulco, e aveva ragione. La conferma la diedero i buddisti che videro il film, prima che uscisse nelle sale. Un film che vive ancora un suo, specialissimo, successo. Nel 1974, lavorammo a Il portiere di notte. Un film che meriterebbe un apposito libro, e non solo come è avvenuto la pubblicazione della sceneggiatura da parte di Einaudi. Ambientato nel 1957, a distanza dalla seconda guerra mondiale, ripropone un quesito che non si è mai spento: dove erano finiti i nazisti, i colpevoli del conflitto, gli sterminatori dei campi di concentramento, i folli che volevano conquistare il mondo?
La sceneggiatura fu elaborata, dopo che la Cavani arrivò al soggetto definitivo; e c’erano da temere reazioni, che ci furono, si sfidava un tabù. Alle spalle di tutto, c’erano le letture e la conoscenza dei documenti filmati, ma se questi contributi contavano, contava di più la chiave del racconto. Fu trovata nel tentativo degli ex nazisti di riscattarsi dalla loro stessa memoria attraverso sedute psicanalitiche dilettantesche e feroci.
Non credo che ci sia bisogno di dire altro. Il film ebbe un successo tale, e lo ha ancora, che significa soltanto l’aver centrato una necessità: cosa resta del nazismo che non muore, che rispunta, trova sempre legna per i suoi lividi fuochi? muta facciata e fanatismi. Lo stile, il richiamo al cinema classico, l’eco ripristinata a visione palpitante di una realtà diedero forza alla sceneggiatura a lungo definita e limata nell’invisibile, per me preziosa, lavorazione sulle parole che dovevano “alzarsi” dalle pagine scritte. E’ un aspetto questo dell’ “alzarsi” su cui tornerò.
Tre anni dopo, 1977, arrivò Al di la del bene e del male, a prima vista un film su Friedrich Nietzsche, il grande filosofo, il poeta Paul Rée e la scrittrice-psicanalista Lou Salomè, non una femminista ma una donna persuasa della necessità di far valere la forza delle donne, come la storia in seguito si incaricherà di dimostrare. Anche qui indispensabili letture, con la complicazione di trovare testi, traduzioni, documentazione. Sapevamo di avere nelle mani una “bomba” per via del filosofo messo al bando per i sospetti sul suo nazismo che venivano a poco a poco dissipati dal ritorno a un pensiero non convenzionale, svincolato da oppressioni ideologiche e clericali, moralistiche.
Un’altra avventura che difendemmo con convinzione e ostinazione, con consensi sempre in aumento. Liliana aveva diretto un altro “classico”. Ed ecco come ho scoperto uno dei segreti che sono emersi nelle sedute quotidiane dedicate alla verifica della documentazione e alla scrittura scena per scena, fogli di preparazione e pagine che a poco a poco accostavano il risultato finale prima di andare sul set e al decisivo “rito” del ciak.
Ho scoperto, come l’uovo di Colombo, un fondamentale passaggio che “deve” avvenire alle spalle del grande schermo, dopo tante riunioni, tocchi, ritocchi, aggiustamenti, avvicinamenti al copione da fare avere ai collaboratori (direttore fotografia, costumisti, scenografi e così via), agli attori; un cammino verso la sintesi sul set. Esiste la scrittura che è “orizzontale”, sta nelle pagine dei libri consultati e nelle pagine che aumentano fogli di carta; poi c’è la parte “verticale” che ha poco con le pagine scritte, sono le scene immaginate e fissate sulla carta, scene che già devono vivere nel corso del lavoro di sceneggiatura.
E’ la cosa più stupefacente che mi colpito e fatto pensare. Punto di svolta. L’immaginazione deve procedere con e contro la pagina perché deve mettere “in piedi”, “in movimento”, il film così come lo vediamo sul grande schermo. Liliana, in questo senso, è stata ed è una maestra. Conosce il cinema e però non lo divinizza, come può capitare, ma lo usa e lo dispiega. Il film è un’opera “verticale”. Prende da dovunque è possibile, nella tradizione alta del cinema, dalla conoscenza del teatro (e della lirica, le pregevoli regia di “Traviata” e altre opere), dal gusto per la composizione pittorica, fotografica, infine o in principio da un interesse profondo per la realtà. Non la realtà riprodotta, sulla scia di un’infinità di tentativi imitativi, ma quella inventata, reinventata, svelata. Questi sono i punti che volevo esprimere riflettendo sul lungo periodo di lavoro in comune con Liliana.
Molto ci sarebbe da dire, ad esempio su Dove siete? Io sono qui(1993), ispirato al libro-romanzo di Oliver Sachs, Vedere voci: il ritratto di due ragazzi che si cercano e cercano con loro diversità, nel mondo dei segni, dei linguaggi che vanno oltre la parola. Molto da dire anche per i numerosi progetti che si sono fermati a vari livelli di preparazione. Soprattutto una sceneggiatura, a mio avviso bellissima, dedicata a Wolfi Mozart e alla sorella Nannerl. Lo svelamento di uno struggente amore tra fratelli protagonisti da bambini prodigio di una tournèe durata tre anni di musica, sofferenze, felicità, successi nei castelli e nei palazzi dei re e degli imperatori.
E anche quella, pubblicata da Einaudi col titolo “Lettere dall’interno”, sulla storia di Simone Weil, sindacalista rivoluzionaria, presente nella gierra di Spagna nel 1936, nella resistenza, ebrea, cristiana, buddista, in cerca instancabile di sapore e amore per la vita. La “verticalità”, per questi progetti, non la si deve sui grandi schermi del cinema e quelli piccoli sempre più grandi delle tv; però c’è, esiste, invisibile sulla carta. Luci che non si perdono, e resistono di riflesso in tutto un lavoro compiuto con passione.