Auguri a David Lynch, maestro del perturbante
Onirico, disturbante e spiazzante. Il cinema del maestro David Lynch è una landa sconfinata fatta di ossessioni, invenzioni e ribaltamenti di senso. Artista completo e autore fra i più imprescindibili del cinema moderno che non smette di affascinare tutte le generazioni. Ecco qui il diario personale di un incontro, cinefilo e non solo, con il maestro.
Nella vita di ogni cinefilo il primo incontro con un autore – proprio come il primo amore- non si scorda mai. Quello del sottoscritto con il cinema di David Lynch è avvenuto (relativamente) tardi, a diciassette anni, in una ampia monosala di città trasfigurata oggi in convenzionale multiplex. Era l’autunno del 1990 e solo sette anni dopo quello stesso luogo si sarebbe affollato di spettatrici col cuore infranto per la sorte di Jack Dawson. Undici ne mancavano invece allo storico week-end in cui avrebbe ospitato la stupefacente Terra di mezzo della “Compagnia”.
Quel silenzioso pomeriggio però, fatta eccezione per me, un amico trascinato a forza, la “maschera” (ve la ricordate?) e un paio di casalinghe fuorviate dal titolo, non c’era nessuno ad assistere alla proiezione della Palma d’Oro 1990. Spettacolo rigorosamente iniziato (tutta colpa dei bus ritardatari) e previa intesa con l’amico di rivederne l’inizio, ci addentriamo in quel buio nell’istante esatto in cui un cerino accende lo schermo rivelando la nudità di una sala vuota. Lo schermo si “infuoca” letteralmente sotto i nostri occhi impressionando sulle retine inaspettati amplessi a ritmo “metal”.
Il primo incontro con Lynch venne così battezzato dal fuoco di un incendio invece che dall’acqua e non poteva trattarsi di inizio migliore. Due parole mi accompagnarono subito durante questa cinefila iniziazione al poeta dell’onirico e del perturbante. “Wild” come solo quel cinema in fuga dagli sche(r)mi sapeva essere. “Heart”, perché fatto di immagini che pulsavano di un’emozione autentica, malata e al contempo struggente. Il “cuore selvaggio” di David mi aveva già rapito senza appello. Ero piombato in un arido (e acido) mondo di Oz insieme a Lula, Sailor e la perfida strega dell’Ovest ma, soprattutto, avevo varcato i confini di un “empire” che non vedevo l’ora di esplorare in lungo e in largo.
Obbligatorio dunque iniziare il viaggio con la visione della pellicola cronologicamente più contigua a “Cuore selvaggio” e cioè “Velluto Blu”, film per il quale nel 1986 “non avevo l’età”. Grazie a una consunta VHS da noleggio ecco stagliarsi davanti ai miei occhi un’altra fondamentale regione del disturbante cosmo lynchiano. Ok, la provincia americana fatta tutta di bianchi steccati, aiuole ordinate e vicinato d’ordinanza magari non ce l’abbiamo, ma di quel brulicante verminaio in essa celato possiamo quantomeno sospettare l’esistenza. Lynch ha il coraggio di rivelarcelo servendosi di uno stile che flirta col noir anni ‘50, anche se corrompe immediatamente la classicità di quelle forme attraverso il suo perverso senso del grottesco. Cosa che farà ancora e ancora.
Da artista figurativo “completo” qual è (la pittura, del resto, rimane una delle sue espressioni principali) Lynch sviluppa la sua ricerca cinematografica muovendosi sul crinale dell’ambiguità e delle sfumature, attraversando quei territori intermedi e sospesi in cui albergano sia il pensiero razionale che il vertiginoso subcosncio. Guardare un suo film in un certo senso è un po’ come rimirare un’opera d’arte moderna. “Sentirlo” invece significa avvicinarsi ad essa, lasciarsi rapire dalle nuances più oscure di quelle pennellate per contemplare l’irregolare bellezza dei grumi di colore. Perché è lì che si nasconde il mondo al di là delle apparenze, l’universo che a Lynch interessa davvero raccontare.
Perfino quando questo spazio si presenta davanti agli occhi sotto le fattezze di ricostruzioni d’epoca impeccabili illuminate da un bianco e nero cristallino come in “The Elephant Man”, vi è sempre un altrove che fermenta sotto quella apparente purezza. La storia di John Merrick ( che poi fu la terza pellicola della mia “riscoperta”) è davvero l’affresco clinico-romantico sulla diversità che spezza ogni cuore. Ma chi potrebbe negare che dietro l’impeccabile forma non vi sia anche uno studio antropologico sull’uomo e sulla sua ipocrita necessità del “diverso”?
Se la pietà nei suoi confronti è fisiologicamente “umana”, può negarsi tuttavia che un simile sentimento rappresenti il comodo strumento con cui la società (e quella vittoriana non è nemmeno ideologicamente così dissimile dall’attuale) baratta l’arrogante diritto di restare uguale a se stessa? C’è spazio anche per una simile riflessione insieme al magone e alle lacrime versate per il pietoso addio di John Merrick alla Terra. Ancora una volta il “grumo” ci turba più della pennellata uniforme e Lynch non esita a sottoporcelo fra le pieghe di un racconto smaccatamente “classico”.
Questo il film più “ordinario” e celebrato di Lynch (fino a “Straight Story” s’intende), che non a caso faceva seguito a quel “parto” incredibile rappresentato dallo sperimentale “Eraserhead”. Di quest’ultimo l’odissea clinica ed umana dell’Uomo Elefante sembra quasi aver conservato, già sotto il profilo visivo, qualche incontrollato e metaforico “spurgo”. Disturbante ed espressionista fino all’inesplicabile, la “mente che cancella” si staglia al principio della filmografia del regista come esperienza visivo-sensoriale (versione psicologica di un demone cronenberghiano?) puntata verso la corteccia cerebrale dello spettatore, invece che come opera da imbrigliare in banali incasellamenti logico-razionali. E’ tramite questa allucinazione perenne e quasi informe (in realtà dotata di specificità e coerenza cinematografiche) che nel 1977 il poco più che trentenne regista di Missoula annunciava al cinema la singolarità del suo manifesto d’intenti. Ma a quel tempo Hollywood celebrava se stessa attraverso “Star Wars” e l’avanguardia era solo terreno per cinefili. Poco importa però perché un mondo si era appena dischiuso parallelamente agli universi stellati di Lucas e quel mondo, nel 1990, era giunto fino al sottoscritto.
Recuperare la sua filmografia muovendomi tra l’attualità di allora (Cuore selvaggio, Twin Peaks) e le opere precedenti (i già citati Velluto Blu ed Elephant Man o l’imperfetto, ma non per questo privo di personalità, Dune), è stata operazione utile per poter fare il mio ingresso dentro un universo così eclettico, inesplicabile e coerente al tempo stesso. L’opera di David Lynch è infatti di quelle che non richiedono allo spettatore di inoltrarsi lungo un sentiero cronologicamente definito per mettere a fuoco una (scontata) evoluzione d’autore. Il fascino e la bellezza del suo cinema risiede invece nella possibilità di potervi accedere in qualsiasi tempo o da qualsiasi parte (o “porta” come in “Inland Empire”), ben consapevoli che quei luoghi non saranno mai i medesimi visitati da altri.
Sarà anche per questo che il tema del “doppio” finisce per ricorrere nel suo cinema come un silenzioso mantra ispiratore di svolte narrative vertiginose e inconsuete (Strade perdute, Mulholland Drive). Svolte che amplificano, se possibile, l’idea di una “percorribilità” sempre diversa (o inversa) delle sue storie. Perfino un prodotto come “Twin Peaks” – vertice espressivo della televisione del XX° secolo- osa abdicare alla linearità tipicamente televisiva per abbracciare, sotto le mentite spoglie di una “trama”, ossessioni personali di subconscia provenienza e proporsi quasi come studio sulla circolarità degli eventi (lo spirito Bob che nel finale si impossessa di Dale Cooper potrebbe rappresentare l’ennesimo inizio per raccontare nuovamente la sonnacchiosa e mostruosa cittadella montana, “doppia” anch’essa fin dal nome).
Ma attenzione a non scambiare tutto questo per mero esercizio registico o delirante divagazione personale; sarebbero errori valutativi che potrebbero costare caro tanto a un critico poco giudizioso quanto a uno spettatore frettoloso. Perché il suo cinema, dotato di sconvolgente personalità, può tornare prepotentemente ad affacciarsi a noi anche in modi affatto inaspettati, sorprendendo tutti per la sua splendida potenza creativa ed emotiva. “Una storia vera” si chiama questo cinema quando Lynch sceglie di assecondare il pudore dei sentimenti. E sono quei sentimenti che chiedono a gran voce di “farsi strada”, avanzando però con lentezza perché un cuore (anche se selvaggio) non va mai forzato. Un atto d’amore sincero e struggente il suo, narrato però da chi è consapevole di dover convivere sempre con la metà oscura del proprio cuore (e di una nazione). Toccante? Da lacerare i cuori. Spiazzante? Non troppo se si pensa che Lynch semplicemente “sentiva” l’esigenza di raccontare tutto ciò, dando voce e immagini alla sola necessità davvero insopprimibile del suo essere artista: assecondare l’impulso creativo. E degli impulsi il vero artista non sa nulla se non che resta ignota la destinazione verso cui mirano a condurlo.
Sarà per questo che, dopo essersi congedato dal millennio con un simile gesto d’amore verso il cinema (e magari se stesso), l’artista, nel nuovo secolo, semplicemente si è “lasciato” impossessare da altre immaginazioni ed ispirazioni. Prima percorre strade che lo conducono dal più classico dei boulevard (il “Sunset” di Wilderiana memoria) dritto fino al cuore onirico di “Mulholland Drive”, quindi può concedersi, e concederci, di scrutare dietro le quinte del suo “Inland Empire”, attraverso un atto cinematografico che mette a nudo l’artificio stesso della finzione. La summa del suo cinema e del suo pensiero in qualche modo è racchiusa qui. Da allora (2006) quasi otto anni di silenzio dedicati ad esplorare altri territori fra musica, pittura e l’amata meditazione trascendentale, nell’attesa che altre urgenze creative si facciano avanti nel suo percorso.
Oggi, giorno del suo 68°compleanno, sono diventati già 23 gli anni trascorsi da quello del mio incontro cinefilo con il grande David. E anche se il mio cerchio personale al momento sembra essersi chiuso, perchè circostanze fortuite mi hanno riservato perfino un intenso e inaspettato incontro dal vivo con il genio (forse il momento più gratificante di questo insolito percorso di vignettista-giornalista per il blog), non aspetto altro, come tanti amanti del suo cinema, che si aprano ancora una volta i gli steccati delle villette ordinate di Blue Velvet o magari i drappi della camera rossa di Twin Peaks. Non importa se per raccontare un sogno o un incubo; l’essenziale è che a tirare il sipario ci sia ancora il maestro. Nell’attesa non resta altro che ascoltare il suo “silencio”…