Ben-Hur: recensione in anteprima del remake
Ben-Hur versione 2016 conferma tutti o quasi i timori della vigilia. Senza nemmeno scomodare l’originale del 1959, il remake di Timur Bekmambetov è semplicemente un film senz’anima
Uno dei remake più temuti degli ultimi tempi; tempi che non sono stati affatto avari di operazioni del genere, su cui tanto è stato scritto e non sempre a ragion veduta. Tocca allora sgomberare il tavolo di lavoro da uno degli equivoci in cui sarà più facile cadere: i limiti di Ben-Hur 2016 non sono da ricercarsi nel confronto (improponibile) con l’originale. Il progetto affidato a Timur Bekmambetov purtroppo fa acqua da tutte le parti a prescindere dalla fonte, perciò rileva in seconda battuta se il film sia o meno “rispettoso” nei confronti del celeberrimo colossal del ’59.
A Gerusalemme il romano Messala ed il nobile ebreo Giuda Ben-Hur vivono sotto lo stesso tetto da fratelli, sebbene acqusiti; lo straniero è stato adottato dalla famiglia di Giuda, che lo ha cresciuto nonostante le riserve di Messala, che non si è mai sentito del tutto integrato in quell’ambiente facoltoso. Non appena decide di cambiare vita lo fa drasticamente: abbandonata Gerusalemme, Messala si arruola nell’esercito imperiale, facendo parecchia strada. Quando torna nella provincia romana dove ha trascorso la sua adolescenza oramai ricopre un ruolo importante, ma sopratutto, torna da occupante per conto dell’Imperatore. La missione è debellare la setta degli zeloti, che chiedono a gran voce l’indipendenza da Roma; per riuscirci Messala cerca di avvalersi dell’aiuto di Giuda ma le cose non vanno come preventivato e quest’ultimo diventa schiavo vagando per cinque anni per lo più a bordo di galere.
L’incipit è grossomodo invariato, anche se le differenze non mancano, specie nel finale. Dove Ben-Hur 2016 si perde è però nel goffo processo di ammodernamento. Il tentativo di attualizzare, non tanto la storia, quanto il linguaggio attraverso cui raccontarla, manca clamorosamente il bersaglio, confermando i sospetti della vigilia (il pregiudizio è umano) circa il fatto che non ci fosse nient’altro al di là della discutibile quantunque comprensibile volontà di sfruttare il titolo. No, a questo Ben-Hur manca un’anima poiché non ha una direzione quale che sia: non intende farsi contenere dal film originale ma nemmeno manifesta una forma chiara che ne giustifichi l’esistenza.
Bekmambetov può fare poco con una sceneggiatura così piatta e degli attori che semmai ne esasperano certi limiti; dal canto suo il regista si affida a delle riprese che tendono esteticamente a discostarsi da certo classicismo, finendo però con l’appiccicarvi uno stile che non si amalgama in nessun caso. Un colossal fuori tempo massimo girato come quasi come fosse un film indipendente, con un montaggio ed una progressione che nel migliore dei casi faticano vistosamente a tenere desta l’attenzione. Se ne ha la prova nel fatto che lì, da qualche parte, la storia c’è, si avverte; ed è potente, quasi mitica. Ma è come se per tutto il tempo si cercasse, e con ottimi risultati, di coprirla.
L’impegno sembra stare tutto lì, nel mortificare delle notevoli premesse. Perché, tra le altre cose, questo remake manca di coraggio, ossia l’ambizione; se decidi di incamminarti per questo sentiero devi essere sicuro di avere la faccia tosta per andare contro tutto e tutti, puntando a fare qualcosa di grande, non importa come. Non vorrei apparire prosaico, ma 100 milioni di dollari mi sembrano una cifra più che ragionevole per impostare un progetto di questo tipo in tutt’altro modo, tarandolo su frequenze che ci restituiscano un’opera quantomeno accettabile.
E Ben-Hur, mi spiace, non lo è. Non lo è anche in funzione di alcuni elementi che sono stati espunti rispetto all’originale senza alcuna reale motivazione: a parte il pessimo finale, un cocktail buonista-ecumenico che lascia il tempo che trova, anche altri piccoli ma significativi accorgimenti. Nel Ben-Hur del 1959, per dirne una, il volto di Gesù non si vede mai: d’altronde questa non è la sua storia, ma evidentemente la sua presenza non è affatto marginale. Non mostrarne mai il viso, perciò, rappresenta un intelligente escamotage, poiché né intensifica la portata, rendendo questo personaggio centrale malgrado appaia poche volte (anzi, proprio per questo).
Ok, tutti sappiamo chi fosse il Nazareno, così come lo sapevano tutti nel ’59; si veda però cosa ne viene fuori qui, e dal primissimo dialogo: Gesù sta costruendo un tavolo e parla per aforismi, in una sorta di Jesus for dummies. Il suo peso nella narrazione viene perciò immediatamente compromesso, bruciandosi una traccia parallela notevole nel più sgangherato e disattento dei modi. Questo denota un’approssimazione che non è ammissibile da qualunque prospettiva la si osservi, che era la deriva minima da evitare a qualunque costo. Ben-Hur 2016 non salta nemmeno questo d’ostacolo, inciampando vistosamente praticamente qualche metro dopo il nastro di partenza. Altro che Charlton Heston e nostalgie assortite!
[rating title=”Voto di Antonio” value=”2″ layout=”left”]
[rating title=”Voto di Carla” value=”3″ layout=”left”]
Ben-Hur (USA, 2016) di Timur Bekmambetov. Con Jack Huston, Toby Kebbell, Morgan Freeman, Rodrigo Santoro, Nazanin Boniadi, Ayelet Zurer, Sofia Black-D’Elia, Haluk Bilginer, Pilou Asbæk, Marwan Kenzari, Moises Arias, Yasen Atour, David Walmsley e James Cosmo. Nelle nostre sale da giovedì 29 settembre.