Berlino 2016, venerdì 19 febbraio: le estenuanti otto ore di Lav Diaz, oggi gli ultimi due film in Concorso
Festival di Berlino 2016: A Lullaby to the Sorrowful Mistery è una lettera d’amore al proprio Paese a tratti toccante, ma le otto ore rappresentano uno scoglio notevole. Oggi Polonia e Iran chiudono ufficialmente il Concorso
Ci siamo. Oggi ultimo giorno ufficiale di Concorso, poi domani e domenica si tenta di recuperare qualcosa che non è stato possibile inserire nel corso di questi giorni. Due i film che ancora mancano all’appello: United States of Love di Tomasz Wasilewski e A Dragon Arrives! di Mani Haghighi, rispettivamente polacco ed iraniano.
Sulla giornata di ieri vorrei poter scrivere chissà cosa, ma non mi è semplicemente possibile. Un giovedì, il 18 febbraio, totalmente monopolizzato da Lav Diaz, il cui A Lullaby to the Sorrowful Mistery ha rappresentato un tour de force inedito persino per lo stesso regista filippino. Aspettate la recensione nel corso della giornata, ma vi anticipo che non sarà particolarmente entusiasta. O così o niente, non ci sono mezze misure; sono otto ore che vanno vissute nell’ottica dell’esperienza cinematografica, ma ciò non significa che debba essere così provante. C’è chi l’ha amato, integrando magari commenti del tipo: «in generale mi è piaciuto molto. Certo, la quinta e la sesta ora le ho trovate un po’ sottotono, però…». Di che stiamo parlando?
Ad ogni modo, il produttore in conferenza stampa ha esortato i media filippini a spingere per far sì che il film abbia una distribuzione, dicendo che queste potrebbero essere le otto ore meglio spese nella loro vita. Dal canto nostro non possiamo che augurargli buona fortuna. A voi, invece, diamo appuntamento a domani, ultimo tassello di questo nostro diario.
18 febbraio: delude Vinterberg, è il momento delle otto ore di Lav Diaz
Meno due. Due giorni ancora ed anche questa Berlinale sarà archiviata. Un’edizione che, alla luce dei 15 film su 18 già visti, si può ritenere sottotono, specie se si pensa al 2015, da dove sono addirittura usciti alcuni tra i film migliori dell’anno. Ma non è ancora tempo di bilanci; diciamo che si è trattato di un pensiero a voce alta.
Pensiero certamente condizionato dall’esito della proiezione di uno dei film più attesi, quello di Vinterberg, il cui The Commune non convince e nella recensione tento di spiegare il perché. Diverso il discorso per Zero Days, che è un buon documentario, di quelli che sa fare Alex Gibney. Tutto qui? Beh, sarebbe tutto qui se non fosse per Nitro Zeus e per la quasi surreale situazione di vedere il cinema calato a tal punto in un’attualità in cui oramai il confine tra verità e menzogna non si riesce più a distinguere. A me, comunque, nessuno toglie dalla testa di aver preso parte ad un passaggio importante dell’epoca che stiamo vivendo, a prescindere da quello che verrà fuori nei prossimi mesi o anni.
Questo per quanto riguarda il Concorso alla voce 17 gennaio. In realtà ho avuto modo di vedere ben altri tre film, ossia News From Planet Mars (Fuori Concorso), Weekends (Panorama) e The End (Forum).
Che dire del film belga di Dominik Moll? Ahimè continuo a far fatica con la loro comicità, che almeno qui, per quanto a tratti contraddistinta da un grottesco sopra le righe, è molto più disciplinata e divertente rispetto all’ultimo, insopportabile film di Van Dormael. E poi contempla una delle scene del Festival, insieme al collo della gallina spezzato da Damien in Quand on a 17 ans, ovvero un cane lasciato correre con disinvoltura da un ponte.
Weekends ha un suo perché più che altro come documento, attestante la situazione sul fronte dei diritti omosessuali in Corea del Sud. Agli occhi di noi occidentali, abituati ad una comunità molto più radicata, certe derive appaiono per lo più ingenue, come i testi delle canzoni di questo gruppo di attivisti che, stonati come sono, hanno formato un gruppo e cantano in giro per il Paese.
The End del francese Guillaume Nicloux è un film, per l’appunto, di Nicloux: come in Valley of Love, costruisce discretamente la vicenda, esplorandola con sobrietà e rigore, quando poi però si tratta di tirare le somme si perde malamente. Peccato perché la pesantezza del corpulento Depardieu copre metà film dignitosamente. Solo che il regista francese ad un certo punto non sa decidere che strada prendere, ponendo la storia in un limbo straniante, più pretenzioso anziché no.
Oggi Lav Diaz. Otto ore. Una giornata lavorativa per un solo film.
17 febbraio: non male sia Genius che Chi-Raq di Spike Lee
Comincio con un aneddoto veloce veloce, che mi vede invischiato in un sorpasso al camioncino che vende panini davanti l’Arkaden (ottimi, per la cronaca, sia di maiale che di manzo). Un tizio sulla cinquantina fa lo gnorri e mi passa avanti sia per pagare che per poi ritirare la sua cena, in entrambi i casi frustrato dalla mia tempestività (avevo una proiezione un quarto d’ora dopo). Il tizio sembra simpatico, tanto che non ricambia nemmeno la mia occhiataccia, come se nulla fosse accaduto; e dato che effettivamente non era successo nulla, oltre ad avere il sottoscritto paradossalmente apprezzato tale indifferenza, ho fatto un sorriso, ho addentato il panino e mi sono diretto alla sala.
Dodici ore dopo circa (ok, forse quindici). Era l’altro ieri, domenica 14. Prima proiezione, Death in Sarajevo. Parte il film. Dopo cinque minuti ho una sorta d’illuminazione: ma chi è quello? L’attore che interpreta il direttore, intendo. Ma è lui, il sorpassatore! Quasi mi spiace che il suo personaggio sia un po’ infame nel film.
Oggi giornata ricca, come vi avevo promesso. Non tanto per Soy Nero, di cui potete leggere nell’apposita recensione. Devo dire che non nutrivo particolari aspettative, sebbene in cuor mio ci sperassi, però Genius non è affatto malvagio. Leggete la recensione se vi va, e scoprite il perché.
Oggi è stato piuttosto il giorno di Spike Lee e Michael Moore, due che non le mandano a dire di certo. Chi-Raq è un lavoro interessante, spassoso, che prende Aristofane, lo ambienta nella Chicago della gang e lo adatta grossomodo a musical con le rime. L’idea che semmai le cose potranno cambiare da quelle parti, beh, debbono essere le donne a farsene carico mi pare una constatazione applicabile a qualunque contesto, in qualunque epoca; ma da quando non si sentiva una cosa del tipo «No peace No pussy»? Lasciate stare il movimento femminista, quello è un altro discorso; un po’ più vicino ci va piuttosto quell’epoca della cristianità in cui la donna, infarcita di romanzi cortesi e cavallereschi, insegnava la distanza sessuale all’uomo quale antidoto migliore alla loro bestialità, trasformandoli in cavalieri, dunque uomini, da bruti che erano.
Capite che un progetto come Chi-Raq abbia perciò un respiro meno ristretto di quanto si possa pensare, perché non riprende solo Aristofane, bensì anche quella stagione di cui sopra, calandolo interamente nella realtà del ghetto. Certo, manca la brillantezza dei ritratti che Spike Lee dipingeva fino a qualche anno fa, quelli che, con una visione unica, riuscivano a farti entrare davvero in certi contesti. Qui la verosimiglianza è volutamente smorzata dall’esigenza di esasperare taluni elementi, iniettando quel tanto che basta di teatralità. Tuttavia pare proprio lo Spike Lee migliore da tempo a questa parte.
Due-parole-due pure su Where To Invade Next di Michael Moore. Che Moore sia pungente, personaggio di spirito e sopra le righe è risaputo. Qui l’intento è parlare degli USA senza girare un solo secondo negli USA. In pratica il nostro si fa un giro in Europa per capire come alcune nazioni affrontano certi problemi ancora irrisolti negli States. La prima, manco a farlo apposta, è l’Italia; e già qui si capisce l’andazzo. Viene intervistata una coppia che racconta che in Italia le ferie sono sacre, oltre che pagate, s’intende, e che sono non meno di quaranta giorni l’anno. Se, buonasera. Moore ci dipinge come pieni di vita, sempre allegri, mai stressati. E perché? Perché andiamo almeno due volte l’anno in vacanza. Ok, con Moore non sai mai, ed in fondo si tratta di mettere in evidenza le storture della sua terra. Ma se sembra avere così dannatamente ragione è per un motivo solo: semplifica troppo. Ridere si ride, perché Moore sa il fatto suo, ma allora lo si prenda per quello che è, ossia una farsa che però parla di argomenti “seri”.
Ad ogni buon conto, vi ho sottratto già abbastanza tempo. Oggi altra giornata da non buttare. Alle 9 Alex Gibney con Zero Days, dopodiché l’atteso ultimo lavoro di Thomas Vinterberg, The Commune. Gli unici due film in Concorso oggi. A risentirci fra ventiquattr’ore.
16 febbraio: l’Orso d’Oro al cinese Crosscurrent non ci dispiacerebbe affatto
Forse l’abbiamo trovato. Siamo esattamente a metà strada, è vero, ma è vero pure che dei 18 in Concorso già 11 sono in cassaforte per quanto ci riguarda. Perciò non indugiamo oltre e dichiariamolo: Crosscurrent per chi scrive è da Orso d’Oro. Sarebbe in ogni caso un delitto lasciarlo fuori dal Palmares, epilogo che non sinceramente non vedo plausibile, ma mai dire mai.
Ieri tre film in Concorso, le cui recensioni sono già tutte online, ossia Death in Sarajevo, Alone in Berlin e, per l’appunto, Crosscurrent. E se da un alto non ci è dispiaciuto il serbo, Alone in Berlin è fino ad ora il peggiore in Concorso. Succede anche così ai Festival: nella stessa giornata il migliore ed il peggiore.
Un’altra conferma importante, però, ci arriva dal post-proiezione di La helada negra, film argentino di Maximiliano Schonfeld; tra questo e Tempestad, il nostro personale palmares tra le gemme fuori dalla selezione ufficiale è tutto appannaggio del Sud America, che si conferma vitale come va dimostrando da svariato tempo a questa parte.
Ma non c’è un attimo di tregua, perché anzi quella di oggi è una delle giornate sulla carta più entusiasmanti dell’intero Festival. Dopo Soy Nero alle 9 presso il Berlinale Palast, ci sono infatti rispettivamente Genius, Chi-Raq di Spike Lee e Where To Invade Next di Michael Moore. Qui non ce la perdiamo di certo.
15 febbraio: André Téchiné risolleva una giornata particolarmente spenta
Giornata particolare quella di ieri. No, il santo e martire San Valentino non c’entra, men che meno l’improbabile festa. I più assidui tra i nostri lettori avranno già preso visione delle recensioni di Cartas da guerra e 24 Woken. Ebbene, si è trattato dei primi due film della giornata. Se non avete giù provveduto, vi consigliamo caldamente di andare a leggere tornare qui.
Fatto? Perfetto. C’è voluto André Téchiné nel pomeriggio per risollevare le sorti di questa non edificante domenica di Festival, per lo meno in termini di qualità. Ma avendo a disposizione anche la recensione di Quand on a 17 ans, non vedo perché ripetermi.
Nel tardo pomeriggio ho avuto modo di vedere Indignation. Ore 18.45, Zoo Palast (che per intenderci, è anche la sala più comoda, con le sue poltrone reclinabili che al quarto film della giornata, con quattro ore di sonno, sono come una siringa di eroina già pronta e puntata alla vena di un drogato). Ad ogni modo, c’era curiosità, non direi attesa. Anzi. Ed infatti il film di Schamus non parte meravigliosamente. La storia riguarda questo giovane, Marcus, brillante ragazzo ebreo che si appresta ad andare al college. Qui incontra Olivia, una ragazza non convenzionale, che al primo appuntamento regala al sorpreso ancorché compiaciuto Marcus un pompino. Roba scandalosa per l’epoca; siamo nei primi anni ’50, periodo di maccartismo spinto, e certi paletti sono interiorizzati dai più. Tratto da un romanzo di Philip Roth, Indignation possiede addirittura una delle scene più belle del festival fino ad ora, ovvero il botta e risposta tra il preside e Marcus, chiamato a colloquio per essere sottoposto ad interrogatorio. Quello che sembra perciò un film inizialmente modesto, cresce poco alla volta, chiudendo il cerchio anche con un pizzico di malinconia.
Avrei pure visto Trivisa, film di Hong Kong diretto a sei mani, ma vuoi per l’ora, vuoi per l’avvitamento della storia, non credo di avere seguito un granché. Di sicuro non è l’action duro e ritmato che mi aspettavo, malgrado un inizio promettente con un tizio losco che fredda tre poliziotti senza passare dal via.
Oggi è un’altra storia. Ciò che resta invariata è l’abitudine a riportarvi solamente i tre film in Concorso che, Deo adnuente, vedrò. Uno dopo l’altro, Death in Sarajevo, Alone in Berlin (solo io trovo divertente e non casuale l’aver messo due film con due capitali nel titolo vicini?) ed il cinese Crosscurrent. Il resto a sorpresa. A noi piacciono le sorprese. Spero anche a voi.
14 febbraio: applausi a scena aperta per Fuocoammare di Gianfranco Rosi
Siamo al terzo giorno e fino ad ora sono riuscito a rispettare il programma. Non meno di quattro film al giorno, cinque in giornate di grazia come quella di ieri. Sui tre in film in Concorso mi sono già espresso in sede di recensione, perciò agevolo a voi la lettura e a me il lavoro soffermandomi brevemente sugli altri tre film. Solo, per dovere di cronaca, riportiamo che gli applausi più sentiti e rumorosi fino ad ora se li è beccati proprio Gianfranco Rosi, a parte le sincere risate a seguito di alcuni siparietti con il piccolo Samuele. Il tutto davanti alla Giuria, presente in sala alla prima proiezione per la stampa.
Il primo è Manaha (The Patriarch), parabola popolare che viene dalla Nuova Zelanda, a sua volta trasposizione di un romanzo. C’è una scena che ho apprezzato, che riesce ad aggirare il problema relativo al mostrare o meno uno stupro con un semplice piano sequenza attorno all’abitazione, per poi fermare l’inquadratura nella stanza da letto, luogo del misfatto, entrando dalla finestra. Il resto mi sembra più che altro un’opera patinata che ha il dovere di essere edificante. Interessante la storia, ma è tutto troppo rarefatto, costruito finanche in quei punti in cui la messa in scena delle comparse è poco o nulla verosimile. In compenso scopro che circa sessant’anni fa in Nuova Zelanda c’è chi si guadagnava da vivere commentando le gare di tosatura di pecore.
Dopo è stato il turno di Terence Davies, col suo elegante, formalmente impeccabile A Quiet Passion, ovvero la vita di Emily Dickinson. A chi scrive sinceramente è piaciuto tutto, dallo stile, alla notevole recitazione, che colloca quello che poteva essere null’altro che un borioso film in costume proprio su un altro livello. Così per come narrata, la vicenda della Dickinson anticipa alcuni discorsi che tanto tengono banco oggi giorno, senza però farsi sotterrare da alcun anacronismo, tanto nel ricercato inglese colloquiale quanto nel tenore dei discorsi. È l’opera di un cineasta affermato, che ha le idee chiare e sa come metterle in pratica.
L’ultimo è stato Elixir, film russo che è tutto un tripudio di allegorie e metafore. Ammetto di trovarmi un po’ in difficoltà a parlarne, per questa tendenza, tipica di certe produzioni russe degli ultimi anni, ad essere estremamente ancorate alla cultura e l’attualità del loro Paese. Ci vuole ad ogni modo pazienza, perché il film procede un po’ per conto suo, con dei personaggi che rimandano ad altro e le loro azioni ed i loro discorsi che significano qualcosa di diverso rispetto al senso immediato, per lo più poco accessibile.
Oggi altra infornata di film in Concorso, con Cartas da guerra di Ivo M. Ferreira, 24 Weeks di Anne Zohra Berrached e l’ultimo film di André Téchiné, Quand on a 17 ans. In realtà ci sarebbe anche dell’altro in ballo, ma preferisco glissare come ho fatto sinora, per poi parlarne direttamente al prossimo aggiornamento. Buona domenica!
13 febbraio: Midnight Special non è come lo si aspettava, è il giorno di Fuocoammare
Da ieri si fa sul serio, l’avevamo detto. In ordine, Hedi, Midnight Special e Boris sans Béatrice. A sorpresa, il migliore della prima giornata è propria il film tunisino, quello che ha aperto ufficialmente il Concorso. Come ho scritto in recensione, non stupisce che i Dardenne si siano fatti carico della produzione; Hedi è un film piccolo ma di una limpidezza alla quale non si può che rispondere bene. Restando quello che è dall’inizio alla fine, scopriamo non solo la storia di questo agente vendite aspirante artista, ma buttiamo un occhio su quella società lì, che c’immaginiamo agli antipodi e che invece oggi attraversa le nostre stesse ansie ed inquietudini.
Midnight Special è davvero la sorpresa. Una sorpresa in negativo, sebbene non esiste che lo si cassi come un film deludente tout court. Ci abbiamo trovato cose meravigliose, alcune sbocciate, altre in potenza. nella recensione ne parlo un po’ più diffusamente, ma è davvero un peccato che questo straordinario connubio tra vita familiare e fantascienza non giochi a favore di Nichols. Dalla sua quest’ultimo ha l’aver intrapreso per la prima volta la via degli studios; budget più imponente perciò, ma con esso, immaginiamo, anche tutta una serie di compromessi che ci hanno restituito un film di cui forse nemmeno Nichols è del tutto convinto.
Boris sans Béatrice, commedia nera canadese alquanto strana, a tratti pure straniante. Libera, anche di tornare al passato, quello vero, ossia all’Antica Grecia, alla cui cultura Côté si riallaccia senza girarci troppo intorno. Siamo con lui quanto all’intenzione, meno sul risultato. In serata sono riuscito a recuperare pure War on Everyone. Speranzoso in una bella, demenziale commedia nera, l’ultimo di John Michael McDonagh è un pasticciaccio dinanzi al quale i tedeschi si sono sbellicati, ma non ne abbiamo francamente capito il perché. Certo, alcuni episodi, certe battute, la risata te la strappano… ma l’impressione è di avere visto un prodotto degli anni ’90 (e ci siamo) camuffato da opera fresca e brillante (non lo è). Un passo indietro almeno da Calvario insomma.
Ma non perdiamoci in altri ragionamenti. Oggi è il turno dell’unico italiano in Concorso, ossia Gianfranco Rosi, che qui porta Fuocoammare, girato a Lampedusa. Attenzione anche a Mia Hansen-Løve con L’avenir; chiude, Fuori Concorso, il neozelandese Mahana, di Lee Tamahori. Sul resto non mi sbilancio, anche se nel pomeriggio c’è, attesissimo, A Quiet Passion di Terrence Davies, uno dei grandi assenti all’ultima Mostra di Venezia. Niente gara per il cineasta britannico qui in Germania, solo gala.
12 febbraio: parte il Concorso ed è subito Midnight Special
Ed il primo giorno è andato. Sottotono, come sempre all’inizio di un Festival; diciamo la quiete prima della tempesta. Ed infatti oggi si fa sul serio, con ben tre film in Concorso, rispettivamente Hedi, Midnight Special e Boris sans Béatrice. Per chiudere, in seconda serata, War on Everyone, che però è in Panorama. Soffermiamoci sulla giornata di ieri però. Tre film per noi, dato che per Ave, Cesare! avevamo già provveduto nei giorni scorsi entro i nostri confini.
Primo Havarie, opera sperimentale di Philip Scheffner che tratta l’immigrazione via mare, sebbene mediante un approccio atipico: unica immagine per tutti i novantatré minuti, sostanzialmente un pianosequenza registrato col cellulare e rallentato all’inverosimile, mentre in sottofondo si avvicendano interviste e dialoghi catturati dal vivo. Scelta non casuale, dato che il viaggio l’immigrazione illegale è un po’ il tema di questa edizione, per ammissione di Kosslick e soci. Tornando al progetto, ne comprendiamo l’intento, solo che a nostro parere non basta; per lo meno, non alla luce dell’ora e mezza, resa ancora più estenuante da quelle immagini così rallentate, metafora o meno, poco importa.
Nel pomeriggio il messicano Tempestad, opera formalmente impeccabile, con una fotografia elegante senza essere troppo ricercata. Di estremo interesse anche il contenuto, però, incentrato sulle sparizioni di persone nell’odierno Messico. E si segue la vicenda dalla prospettiva di chi vuole sapere che fine abbiano fatto, come questa famiglia di circensi a forma matriarcale, retta perciò da donne. Altro livello rispetto ad Havarie, sebbene un po’ più d’asciuttezza avrebbe giovato. Tuttavia il film ci ha colpito, anche perché riesce a veicolare a sufficienza rispetto alla realtà che mostra, e con una grazia peraltro insolita: meravigliosa l’ultima inquadratura, per estetica e senso.
I, Olga Hepnarova narra la storia vera dell’ultima donna condannata a morte in Cecoslovacchia. Olga è una ragazza poco più che ventenne, instabile, in rotta col mondo. Vive male ogni cosa, la sua sessualità, la vicinanza altrui, finanche lo stare sola. Si sente perseguitata, vilipesa, mortificata da tutti, ed in parte è vero, stando al film, che Olga in alcune occasioni sia stata presa di mira. Il film però è distaccato, quasi apatico, probabilmente proprio in funzione di questo profilo così gelido. Dopo un lungo meditare, Olga decide che il suicidio sarebbe fuori luogo: meglio uccidere qualcun altro. Il suo piano culmina con l’investimento di un gruppo di persone a bordo di un camion, di cui otto perdono la vita. Spaccato nichilista cupo, appesantito da un bianco e nero che non dà scampo. In qualche modo arriva, ma con non poca fatica.
11 febbraio: ai fratelli Coen inaugurare il Festival
Con quella che si appresta a partire sono sessantasei. Un Festival all’insegna della felicità, al desiderio di essere felici, parola del direttore Dieter Kosslick. Sessantasei edizioni di Berlinale, Festival meno glamour, se vogliamo, rispetto ai più blasonati Venezia e Cannes, ma che l’anno scorso diede filo da torcere ad entrambi. Un’annata, la precedente, che era davvero difficile bissare, ed infatti sulla carta la Berlinale 2016 appare più modesta.
Ciò non significa però che non ci sia materiale interessante ed intorno al quale ben sperare. A cominciare dal film d’apertura, quel Ave, Cesare! che noi abbiamo già visto e recensito, ma che rappresenta senz’altro una partenza col botto, specie rispetto a come l’anno scorso venne inaugurato il Festival, ossia con il trascurabile Nobody Wants the Night di Isabelle Coixet.
Ma passiamo al Concorso. Al netto di sorprese, su cui contiamo e che sappiamo ci saranno, noi abbiamo già alcuni titoli su cui puntiamo: Genius, la produzione con più star all’attivo, ovvero Colin Firth, Jude Law, Nicole Kidman e Guy Pearce; L’avenir, di Mia Hansen-Løve, con Isabelle Huppert; Midnight Special, lo sci-fi di Jeff Nichols, che porta qui uno dei suoi due film in uscita quest’anno; Zero Days, documentario di Alex Gibney sulla fragilità della rete.
E ancora: 24 Weeks, diretto dalla più giovane regista in Concorso, Anne Zohra Berrached; United States of Love, del polacco Tomasz Wasilewski; A Lullabay to the Sorrowful Mystery, film di 8 ore in pieno stile Lav Diaz; The Commune, storia quasi autobiografica di uno dei padri del Dogma 95, Thomas Vinterberg; Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che dopo il Leone d’Oro del 2013, vuoi o non vuoi, è atteso al varco; ed il più anziano del Concorso, André Téchiné, con Quand on a 17 ans.
Vogliamo parlare di altro? Beh, anzitutto Chi-raq, il musical di Spike Lee che potrebbe finalmente riportare il regista ad un livello consono, visto l’oramai lunga battuta d’arresto, tra film modesti e remake inspiegabili. Per non parlare dei film inseriti tra i Berlinale Special Gala, nell’ambito di cui spiccano Terence Davies con A Quiet Passion, Michael Moore con Where to Invade Next e Creepy di Kiyoshi Kurosawa, che dallo scorso Cannes non ne uscì benissimo per via di un oltremodo deludente Journey to the Shore.
Good food good vibes 🙂 dieter Kosslick joined us for a a cup of tea at #Berlinale street food market pic.twitter.com/dHMAsCnE1E
— Berlinale (@berlinale) February 10, 2016
Qualcosa l’abbiamo già adocchiata pure in Panorama e Forum, due sezioni da cui di solito escono fuori titoli estremamente interessanti; qui però è tutto in divenire, perché prenderci a priori è un po’ un terno al lotto. Di primo acchito ci incuriosiscono il russo Elixir, la commedia britannica War on Everyone di John Michael McDonagh, l’ultimo film di Anna Muylaert, il brasiliano Don’t Call Me Son, Starve your Dog, film marocchino ambientato a Casablanca ed il canadese How Heavy This Hammer.
In linea di massima avrei pure un calendario, di cui vado particolarmente fiero, non fosse altro per il tempo che c’ho speso. In verità? Beh, mi aspetto che cominci a trasformarsi nella brutta copia del tema di un dodicenne entro le prossime ventiquattrore. Anche su questo vi aggiorneremo. Intanto state comodi. Il Festival di Berlino 2016 qui da noi ha appena avuto inizio. Buon viaggio anche a voi!