Berlino 2017: Final Portrait – recensione del film di Stanley Tucci
Tra cliché e grigiore, Final Portrait evidenzia un’inaspettata sincerità ed un briciolo di un umorismo nel manifestarla
Alberto Giacometti vive col fratello e la moglie in un vicolo che è la sua casa ed il suo studio. Di mestiere fa l’artista, e già il fatto che artista possa essere un mestiere la dice lunga. Diciamo allora che dipinge quadri e scolpisce sculture. Nel 1964 il critico americano James Lord (lo statuario Armie Hammer) viene scelto dal maestro per posare in vista di un suo ritratto; il giovane accetta di buon grado, lusingato anzi. Final Portrait poggia interamente sui lavori condotti per questo dipinto, lunghi, estenuanti e rivelatori.
Il film di Stanley Tucci è uno di quelli che la critica di solito ama odiare, o comunque ridimensionare all’inverosimile; perché intriso di cliché, perché i biopic a tema artistico sembrano più un vezzo che altro, perché… quale che siano i motivi, c’è dell’altro. È vero, Final Portrait è uno di quei lavori su cui probabilmente è più piacevole sollazzarsi a posteriori, date le tematiche evocate, piuttosto che per quanto si ricava durante la visione. Tucci lo sa ed allora opta per qualcosa che sia in qualche modo appetibile ad un pubblico quanto più ampio possibile, magari avulso alle turbe dell’artista contemporaneo e all’Arte in generale. In questo Final Portrait è un film «passato», di quelli che reiterano il concetto di Arte quale sinonimo esclusivo di Pittura o Scultura, per quanto distanti dall’epoca rinascimentale.
Ma quello che è un vizio è anche una virtù in questo caso, nonché il motivo per cui i più smaliziati se ne hanno a male a fronte di una storia che gioca in maniera così sfrontata su qualcosa di così sacro come l’Arte, che tante volte nemmeno capiscono. Rileggendomi mi rendo conto di essere a un passo dal commettere un errore analogo, trattando con sufficienza chi verso il film di Tucci mostrerà disprezzo oppure indifferenza. Final Portrait però parte svantaggiato, seguendo tale ragionamento, in virtù delle premesse, che muovono da un concetto di commedia alquanto popolare, contrassegnata da siparietti e battute tutt’altro che sofisticate sebbene non volgari. E si sorride quando il pittore, ciclicamente, propone il suo viscerale «oh fuck!» ad enfatizzare il disappunto; così come ci si indigna quando la moglie di Giacometti assiste alle smancerie tra il marito e l’amante nella porta difronte.
Insomma, Final Portrait, anche a costo di sembrare prosaici, è quello che è, né più né meno. Ammicando al teatro, anche perché fortemente incentrato sulle performance dei suoi protagonisti, si concede persino un Geoffrey Rush macchiettante, che emette versi e suoni un po’ come il Turner di Timothy Spall, quantunque più loquace e raffinato. Ad Hammer non resta che limitarsi a ciò che è chiamato a fare il proprio personaggio, ossia posare, vestito uguale per tutte e tre le settimane, un po’ complice un po’ puttana, mentre nelle passeggiate al cimitero, dove Giacometti si racconta e dice sempre la verità, dichiara di trovare confortante l’idea di stuprare due donne e poi ucciderle (fantasia ricorrente), e che Picasso dice solo stronzate.
In un passaggio ci si concede addirittura il lusso di soffermarsi implicitamente sulla portata dell’Arte Contemporanea tutta, quando il celebre pittore di stanza a Parigi (il film è ambientato lì) si lamenta su come stia venendo il ritratto: male, perché non ha punti di riferimento e la realtà non gli interessa. Il che fa il paio con quell’altro in cui confessa candidamente di non avere idea di come e cosa faccia, il che, detto in quel tono ed in quel contesto, più che espressione di genialità ci pare essere cialtroneria. Uscite ad effetto, buttate lì per suscitare una reazione, mica per fare un discorso, lasciandosi cullare dal grigiore che contraddistingue le sue opere e dunque la fotografia del film.
Meglio così, un film sul vuoto dice molto di più, perché essenzialmente più centrato, rispetto ad uno che si fa carico dell’onere, del tutto non richiesto, di raccontarci quanto sia dura la vita di un artista, di come si strugga per la creazione e via discorrendo. In Final Portrait di creatività manco si parla, o comunque non ci si sofferma su processi creativi e tutte quelle definizioni a limiti con l’idiozia dei quali ci si riempie la bocca, pensate un po’. Resistere a tale tentazione nell’ambito di un film che comunque, vuoi o non vuoi, orbita attorno al mondo dell’Arte, mica è cosa da poco.
Quello di Tucci è dunque un film modesto ma sincero, che sussurra la propria verità a denti stretti, quella che tutti sanno ma nessuno dice, ossia che l’Arte Contemporanea potrebbe talvolta essere nient’altro che una farsa. In fondo su cosa si sofferma il film se non sull’amicizia di questi due uomini appartenenti a generazioni diverse che si scambiano segreti e sguardi, condividendo quella consapevolezza che non possono manifestare apertamente ma che eppure è chiara a entrambi: stiamo scherzando?
[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]
Final Portrait (Regno Unito, 2017) di Stanley Tucci. Con Geoffrey Rush, Armie Hammer, Clémence Poésy, Tony Shalhoub, James Faulkner, Sylvie Testud, Attila G. Kerekes, Philippe Spall e Laura Bernardeschi.