Berlino 2017: Hao ji le (Have a Nice Day) – recensione del film di Liu Jian
Unico film d’animazione in Concorso, Hao ji le (Have a Nice Day) è una galleria di personaggi che incappano in una serie di eventi improbabili ma credibili. Una black comedy spietata e fieramente pop
Un film d’animazione che si apre su una citazione presa da Dostojevski può essere di tutto. Eppure è proprio questa la didascalia con cui ha inizio Hao ji le (Have a Nice Day), l’unico film d’animazione in Concorso all’edizione 2017 della Berlinale. L’incipit è alto ed ha a che vedere con uno dei leitmotiv di certo cinema cinese degli ultimi anni, ossia l’urbanizzazione forzata, compulsiva, dettata dal boom che la Cina sta attraversando. Liu Jian la prende molto larga e gira una sorta di Un giorno d’ordinaria follia nel sud del proprio Paese, zona periferica popolata da gangster ed opportunisti di varia specie.
Xiao Zhang fa una mossa avventata, ossia sottrarre al proprio capo, Uncle Liu, una borsa piena di quattrini. Il motivo, volendo, è pure altruistico: la ragazza del giovane ha appena subito un intervento di chirurgia estetica, solo che il risultato è talmente orribile che ne serve un altro per correggere l’obbrobrio. I soldi servono per pagare questo nuovo intervento, che presumibilmente dovrà esser fatto in Corea del Sud («lì sì che sanno come fare»). Have a Nice Day è una black comedy che mutua qualcosa dai fratelli Coen, su tutto il suo essere “regionale”, ambientando insomma la sua storia in un’area che è il corrispettivo dei sobborghi sui quali si soffermano di solito i due fratelli del Minnesota. Ondeggiando tra un riferimento e un altro, Liu Jian ci sottopone un manifesto di pop culture della Cina contemporanea, nel quale ci si muove con estrema disinvoltura da Trump a Bruce Lee, passando per il Brexit ed il sopracitato scrittore russo.
Gli eventi sono invece un pretesto, qualcosa di artificiosamente costruito per raccontare l’assurdità di un Paese che ha perso la bussola, in cui avidità e alienazione sono già ad uno stadio avanzato. Ritratto corale, decisamente sopra le righe, che racconta l’abiezione di certi scenari in chiave ironica, perché a certe condizioni questa è l’unica arma rimasta. Le peripezie di Xiao Zhang investono una comunità tutta; le loro esistenze congelate, immobili, sembra non aspettassero altro che il movimento di questa valigetta colma di denaro per mettersi a loro volta in moto. Un moto incerto ancorché isterico, dunque maldestro; ciascun personaggio si ritrova quasi suo malgrado a ridestarsi dal proprio torpore e mettersi sulle tracce del “tesoro” come un cane fa con l’osso.
Il regista traspone bene la fissità motoria dei suoi personaggi, perciò la mortificante noia che aleggia su di loro, e lo fa attraverso inquadrature in cui ci si muove pochissimo anche quando si sta facendo qualcosa – in tal senso dimostrandosi pure furbo, dato che tale scelta gli permette di fare un po’ d’economia per un film che di per sé dura già abbastanza poco (75 minuti). Per questo ogni slancio, anche quello meno scomposto, appare estemporaneo, generando un piacevole effetto comico che se vogliamo ripesca proprio dagli albori del cinema; in questo ispirandosi inevitabilmente pure un po’ a Tarantino (ultimo di tanti), ché Have a Nice Day il sangue e la violenza non ce li risparmia affatto.
Coi contorni della farsa, alla quale il film approda nell’ultimo incidente di gruppo, grottesco sia per come matura che per per come si concretizza: lì le bislacche ambizioni di ciascuno materialmente deragliano, inciampano e si sfracellano, in una divertente corsa che, se denota qualcosa, ebbene… è che spesso poche cose hanno senso. Tanto che Liu Jian non disdegna gli inserti, tagliando di netto il racconto per concedersi qualche minuto di karaoke, in cui due dei protagonisti cantano il loro desiderio di trasferirsi a Shangri-La, luogo immaginario, una sorta di paradiso in terra in cui condurre una vita più semplice, da contadini: un istante dopo eccoli lì, pronti ad incastrare uno dei loro parenti pur di sottrarre a loro volta la già sottratta valigetta.
Ma forse ciò che illustra meglio questa tensione è quanto emerge da una discussione tra altri due personaggi. Secondo uno di loro esistono tre livelli di libertà: la libertà del mercato, quella del supermercato e quella online. Superfluo dirlo, tutte hanno a che vedere con la libertà d’acquisto, svincolata dal denaro, un consumismo senza capitalismo che è di per sé un nonsenso, oltre che tradire la pigrizia ed in generale la sformata forma mentis di chi odia i soldi perché non ne ha ma al tempo stesso non intende affatto sottrarsi dalla logica dell’acquisto compulsivo, ossessionato («immagina di trovarti in ognuno di questi posti e poterti prendere quello che vuoi, senza doverti preoccupare del prezzo»).
Certo, se vogliamo, una critica piuttosto debole, ammesso che di critica si tratti. Il tutto viene ad ogni modo compensato dal fatto che Have a Nice Day non abbia intenzione di prendersi costantemente sul serio, quantunque la denuncia che opera sia dura, incazzata. Un viaggio lungo un giorno, o poco meno, in cui la denuncia si fa gioco, dispositivo sorretto da una buona dose di umorismo e finanche qualche interessante trovata. Formula riuscita anzitutto per via della scelta di proporre tutto ciò in forma animata, prima, vera invettiva ai danni di un ambiente e di personaggi che solo così possono aspirare ad essere paradossalmente verosimili; operazione che funziona perché in concerto con un approccio, al contrario, realistico, i cui rimandi pop ci riportano coi piedi per terra e ci confermano che no, a parte storia e personaggi, nulla è inventato.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”7.5″ layout=”left”]
Have a Nice Day (Hao ji le, Cina, 2017), di Liu Jian.