Berlino 2017: Mr. Long – recensione del film di Sabu
Che giostra l’ultimo film del regista giapponese Sabu, funambolo tra i generi in Mr. Long, eccentrico ma equilibrato thriller urbano dalle venature romantiche
La più bella scena iniziale di questa Berlinale. Siamo in Cina e dei brutti ceffi se la discutono tra loro nel retrobottega; si capisce che si tratta di criminali, tanta è la boria oltre che il livello della conversazione. Sabu ci tiene per un bel po’ su questo gruppo, facendoci assistere a questi irrilevanti botta e risposta, roba a livello di parlare del più e del meno. Finché, dalla penombra, non spunta la sagoma di quello che è presumibilmente un loro amico: una macchia rossa all’altezza dello sterno comincia ad inzuppare la maglietta. Quando la vittima crolla a peso morto per terra, dietro di lui un uomo, con un pugnale in mano… di lì a poco nessuno di quelli intenti a discutere fino a qualche minuto prima rimane vivo.
Long è un assassino che lavora presumibilmente per la Triade cinese; la procedura prevede che il boss gli assegna un obiettivo e lui, senza battere ciglio, esegue gli ordini. Quando per la prima volta incontriamo anche noi il capo, quest’ultimo sta cucinando dei ravioli: altra scena molto elegante, estensione di quella precedente, che sostanzialmente chiude il prologo di Mr. Long. Il protagonista si lava le mani sporche di sangue e, dopo aver ascoltato ciò che gli viene detto, comincia a sua volta a preparare il cibo. Il target successivo lo porta in Giappone, ma qualcosa va storto e Long si ritrova con una ferita all’addome, in una zona di case abbandonate; qui incontra Jun, che gli porta qualcosa da mangiare, dei vestiti e lo introduce alla comunità.
Mr. Long è un film dagli equilibri decisamente precari, in mezzo ai quali però il regista giapponese riesce a destreggiarsi sorprendentemente bene: più generi, più piani temporali, molte sequenze “mute”. Un progetto davvero affascinante, atipico, a suo modo addirittura coraggioso, ché il rischio di ottenere una poltiglia informe a certe condizioni è alto. Ma, come già detto, nulla di tutto ciò accade in Mr. Long, anzi, è proprio la forma, la commistione ad elevare una storia di per sé tutt’altro che inedita, che fa perno su un antieroe quale è il personaggio interpretato dall’ottimo Chang Chen, presenza eccezionale, ottimo su tutti i fronti, sia quando il film vira alla commedia che quando sale d’intensità drammatica.
A certe cose bisogna comunque essere un minimo predisposti, visto e considerato che Mr. Long è opera espressamente nipponica, condotta da un regista che si rifà, consapevolmente o meno, a filmografie come quelle di Takashi Miike nel suo impeto grottesco, in generale piluccando da più parti: western urbano, commedia, thriller, revenge movie, dramma e chi più ne ha più ne metta. Si veda come Long, questo pericolosissimo hitman, viene integrato dalla comunità di giapponesi nella quale è finito: non dice una parola, anche perché non parla la loro lingua, eppure tutti lo prendono immediatamente a ben volere, specie dopo aver scoperto in lui un ottimo cuoco. La cucina come linguaggio universale perciò, uno dei pochi a riuscire ad abbattere ogni barriera; e più Long cucina più i suoi nuovi vicini se ne affezionano, tanto da rappezzargli l’abitazione ed aiutarlo a mettere su una bancarella mobile di noodle cinesi.
Ma Mr. Long verte anche sull’amicizia, quella tra un killer a sangue freddo ed un bambino la cui madre è una tossica, Lily; c’è tutta una parte del film che ricostruisce il passato di Lily, venuta in Giappone dalla Cina per lavorare, successivamente finita in un pessimo giro. Sabu non usa alcun espediente, drastico, preferisce improvvisamente passare a mostrarci cosa sia avvenuto a quest’avvenente e giovane donna con un bambino del quale non è in grado di occuparsi. Trama parallela, la cui presenza dapprima appare ingombrante, salvo poi dimostrarsi del tutto sensata, malgrado sulle modalità il rischio di lasciarsi destabilizzare ci sia. Ma per l’appunto serve in funzione della fase successiva, quando i riferimenti ci conducono dalle parti di Takeshi Kitano e la dolcezza prende il sopravvento: ed anche in questo frangente Sabu si muove bene, lasciando che il rapporto tra Long e Jun cresca una volta per tutte sotto i nostri occhi, nuovamente cercando di spiazzare con una cesura netta al termine di questa parte, che si chiude con un episodio di segno totalmente opposto, per quanto telefonato.
Mr. Long è un progetto molto affascinante, in cui c’è dentro di tutto, a tratti finanche ai massimi livelli, sia che si tratti di buoni sentimenti sia che si spinga sul melodramma. A conti fatti quello di Sabu è un film sentimentale eppure nient’affatto sentimentalista, anzi, capace di non prendersi troppo sul serio, bilanciando quasi tutto con uno stile forte e funambolesco, a cavallo tra pop e tradizione (il kabuki in chiave cialtronesca è emblematico circa quest’ennesima commistione). Senza dissimulare una certa ingenuità, sia sul fronte di certo rarefatto romanticismo che sul piano di certi exploit comici, che anzi viene messa in bella mostra e che, cosa più importante, funziona.
La più bella scena iniziale di questa Berlinale. Siamo in Cina e dei brutti ceffi se la discutono tra loro nel retrobottega; si capisce che si tratta di criminali, tanta è la boria oltre che il livello della conversazione. Sabu ci tiene per un bel po’ su questo gruppo, facendoci assistere a questi irrilevanti botta e risposta, roba a livello di parlare del più e del meno. Finché, dalla penombra, non spunta la sagoma di quello che è presumibilmente un loro amico: una macchia all’altezza dello sterno comincia ad inzuppare la maglietta. Quando la vittima crolla a peso morto per terra, dietro di lui un uomo, con un pugnale in mano… di lì a poco nessuno di quelli intenti a discutere fino a qualche minuto prima rimane vivo.
Long è un assassino che lavora presumibilmente per la Triade cinese; la procedura prevede che il boss gli assegna un obiettivo e lui, senza battere ciglio, esegue gli ordini. Quando per la prima volta incontriamo anche noi il capo, quest’ultimo è intento a cucinare dei ravioli: altra scena molto elegante, estensione di quella precedente, che sostanzialmente chiude il prologo di Mr. Long. Il protagonista si lava le mani sporche di sangue e, dopo aver ascoltato ciò che gli viene detto, comincia a sua volta a preparare il cibo. Il target successivo lo porta in Giappone, ma qualcosa va storto e Long si ritrova con una ferita all’addome, in una zona di case abbandonate; qui incontra Jun, che gli porta qualcosa da mangiare, dei vestiti e lo introduce alla comunità.
Mr. Long è un film dagli equilibri decisamente precari, in mezzo ai quali però il regista giapponese riesce a destreggiarsi sorprendentemente bene: più generi, più piani temporali, molte sequenze “mute”. Un progetto davvero affascinante, atipico, a suo modo addirittura coraggioso, ché il rischio di ottenere una poltiglia informe a certe condizioni è alto. Ma, come già detto, nulla di tutto ciò accade in Mr. Long, anzi, è proprio la forma, la commistione ad elevare una storia di per sé tutt’altro che inedita, che fa perno su un antieroe quale è il personaggio interpretato dall’ottimo Chang Chen, presenza eccezionale, ottimo su tutti i fronti, sia quando il film vira alla commedia che quando sale d’intensità drammatica.
A certe cose bisogna comunque essere un minimo predisposti, visto e considerato che Mr. Long è opera espressamente asiatica, condotta da un regista che si rifà, consapevolmente o meno, a filmografie come quelle di Takashi Miike nel suo impeto grottesco, piluccando da più parti: western urbano, commedia, thriller, revenge movie, dramma e chi più ne ha più ne metta. Si veda come Long, questo pericolosissimo hitman, viene integrato dalla comunità di giapponesi nella quale è finito: non dice una parola, anche perché non parla la loro lingua, eppure tutti lo prendono immediatamente a ben volere, specie dopo aver scoperto in lui un ottimo cuoco. La cucina come linguaggio universale perciò, uno dei pochi a riuscire ad abbattere ogni barriera; e più Long cucina più i suoi nuovi vicini se ne affezionano, tanto da ricostruirgli la casa ed aiutarlo a mettere su una bancarella mobile di noodle cinesi.
Ma Mr. Long verte anche sull’amicizia, quella tra un killer a sangue freddo ed un bambino la cui madre è una tossica (Lily); c’è tutta una parte del film che ricostruisce il passato di Lily, venuta in Giappone dalla Cina per lavorare, successivamente finita in un pessimo giro. Sabu non usa alcun espediente, drastico, preferisce improvvisamente passare a mostrarci cosa sia avvenuto a quest’avvenente e giovane donna con un bambino del quale non è in grado di occuparsi. Trama parallela, la cui presenza dapprima appare ingombrante, salvo poi dimostrarsi del tutto sensata, malgrado sulle modalità il rischio di lasciarsi destabilizzare ci sia. Ma per l’appunto serve in funzione della fase successiva, quando i riferimenti ci conducono dalle parti di Takeshi Kitano e la dolcezza prende il sopravvento: ed anche in questo frangente Sabu si muove bene, lasciando che il rapporto tra Long e Jun cresca una volta per tutte sotto i nostri occhi, ancora una volta cercando di spiazzare con una cesura netta al termine di questa parte con un episodio di segno totalmente opposto, per quanto telefonato.
Mr. Long è un progetto molto affascinante, in cui c’è dentro di tutto, a tratti finanche ai massimi livelli, sia che si tratti di buoni sentimenti sia che si spinga sul melodramma. A conti fatti quello di Sabu è un film sentimentale eppure nient’affatto sentimentalista, anzi, capace di non prendersi troppo sul serio, bilanciando quasi tutto con uno stile forte e funambolesco, a cavallo tra pop e tradizione (il kabuki in chiave cialtronesca è emblematico circa quest’ennesima commistione). Senza dissimulare una certa ingenuità, sia sul fronte di certo rarefatto romanticismo che sul piano di certi exploit comici, che anzi viene messa in bella mostra e che, cosa più importante, funziona. La giostra più divertente di questa Berlinale.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”8″ layout=”left”]
Mr. Long (Ryu San, Giappone, 2017) di Sabu. Con Chen Chang, Shô Aoyagi, Yiti Yao e Junyin Bai.