Home Berlinale - Festival internazionale del cinema di Berlino Berlino 2017: Return to Montauk – recensione del film di Volker Schlöndorff

Berlino 2017: Return to Montauk – recensione del film di Volker Schlöndorff

Lo spettro del passato che perseguita, in amore e nella vita. A dispetto delle questioni evocate, la storia di relazioni impossibili di Return to Montauk non riesce a restare con noi oltre il suo epilogo

pubblicato 17 Febbraio 2017 aggiornato 30 Luglio 2020 01:42

Return to Montauk è come un passo di danza a due; non un valzer ma nemmeno una lambada. Piuttosto un lento, di quelli però non sdolcinati. Volker Schlöndorff propone un cinema senza fronzoli, adottando uno stile con cui va sul sicuro e che, dopo aver sondato il macro della politica con Diplomacy, si rivolge ad una storia decisamente più personale. Max Zorn (Stellan Skarsgård) è uno scrittore berlinese recatosi a New York per promuovere il suo ultimo libro; è interessante come il regista tedesco scompone sotto i nostri occhi il protagonista, ridimensionandolo in maniera vieppiù brutale man mano che la trama si dipana.

Nella Grande Mela vivono anche sua moglie Clara (Susanne Wolff) nonché Rebecca (Nina Hoss), qualcosa di più di una semplice “vecchia fiamma”. Il rapporto con Clara sembra stranamente stabile, i due sono complici, si cercano, sono legati, eppure qualcosa di strano c’è: Clara ora riceve una telefonata e se ne va in bagno a rispondere, ora ritarda, un atteggiamento che evidentemente a Max dispiace ma che tollera, d’altra parte non si può dire che sua moglie sia fredda, distante, anzi. Quando però lo scrittore scopre dove abita Rebecca la curiosità mista a qualcos’altro prendono il sopravvento e la voglia di vederla dopo quasi vent’anni ha la meglio. Quello che un tempo fu il suo più grande amore adesso lavora presso il procuratore distrettuale e vive in un mega-appartamento nel cuore di Manhattan. Inizialmente riluttante, Rebecca cede a sua volta e i due partono per Montauk, ufficialmente per vedere una villa sul mare che la donna intende acquistare.

A quel punto Schlöndorff non ha ancora mostrato le carte ed il suo è un film permeato da un particolare romanticismo, melanconico, che sa già di rimpianto. I quesiti sono terribili per persone di questa età, trovatisi inconsapevolmente a fare dei bilanci: perché ci siamo lasciati? E perché ora ci stiamo vedendo? Andando a fondo il personaggio di Max viene come ribaltato, mentre entrambi vengono letteralmente svuotati da quanto si raccontano, segreti, frustrazioni e rimpianti che poco o nulla hanno a che vedere con la solita fuga d’amore.

Qui Schlöndorff ci riporta violentemente coi piedi per terra, decidendo egli stesso di distruggere quanto fin lì costruito per passare ad un registro completamente diverso, come se si fosse letteralmente entrati in un altro film. Sia nel primo che nel secondo di questi, comunque, la mano è la stessa, senza exploit o colpi di testa; Return to Montauk è come quegli appuntamenti, celebrazioni, incontri o festività da cui alla vigilia ti aspetti le meglio cose, quasi che fossimo in procinto di vivere l’esperienza della vita, salvo poi accorgerci spietatamente che tutte queste cose qui è raro che stravolgano l’esistenza. Schlöndorff ribalterà infatti il film, il suo tenore, non però la vita di queste persone, per cui quanto assistiamo nel film altro non è che una parentesi, a questo punto del loro percorso necessaria, non meno però che dolorosa, magari semplicemente nel confermarli circa le decisioni che hanno preso o subito, giuste o sbagliate che fossero.

Non c’è cinismo né tantomeno compiacimento per la piega che prendono le cose, semmai un’amara constatazione, malgrado il tutto sia molto romanzato, alla fine quasi finanche strappalacrime, perché Return of Montauk si sofferma non su uno bensì su più “amori impossibili”, senza però darci il tempo di capire come i personaggi si relazionano a tale consapevolezza, scelta voluta, dato Schlöndorff si concentra su altro, ossia sul passaggio da una condizione all’altra, mentre tutto cambia affinché nulla cambi. Severo ma forse pure giusto con Max, chi lo sa? L’alchimia tra Skarsgård e la Hoss ha comunque un suo perché, e si rivela determinante ai fini dell’effetto che genera il più volte evocato ribaltamento, che matura poco alla volta, sì, per poi materializzarsi repentinamente, quasi come se si trattasse di un vero e proprio twist.

Un’opera discreta, di quelle che sul momento trattengono: faranno sesso? Torneranno a vivere insieme? Lei lascerà tutto per lui o viceversa? Esatto, domande tipiche da soap opera, ma di fatto questo è Return to Montauk, e la cosa non deve destare meraviglia o addirittura sconcerto; se di soap opera si tratta è di quelle che comunque si lasciano seguire. L’unica è che, emersi i conflitti e chiusi i giochi, i titoli di coda si portano via anche i nostri pensieri. Il limite di film di questo tipo sta infatti nel loro esaurirsi all’atto del consumo, deperendosi al momento. Non è diverso quest’ultimo lavoro di Schlöndorff, nonostante, alla luce delle questioni evocate (il tempo che passa, il passato che perseguita, le scelte sbagliate etc.), forse si ambiva a qualcosina di più. Un “di più” che però purtroppo Return to Montauk non consegue.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”6″ layout=”left”]

Return to Montauk (Germania, 2017) di Volker Schlöndorff. Con Stellan Skarsgård, Bronagh Gallagher, Nina Hoss, Niels Arestrup, Robert Seeliger e Susanne Wolff.

Berlinale - Festival internazionale del cinema di Berlino