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Black Sea – intervista allo sceneggiatore: «una buona storia è più importante della verità»

Noir in Festival 2014: il film «sporco e cattivo» di Dennis Kelly secondo le parole dello stesso sceneggiatore di Black Sea, titolo che arriverà in Italia grazie a Notorius

pubblicato 13 Dicembre 2014 aggiornato 30 Luglio 2020 19:46

Chi ci sta seguendo attraverso il nostro diario, saprà che l’altro ieri è stato il giorno di Black Sea, film diretto da Kevin Macdonald e scritto da Dennis Kelly. Quest’ultimo si è prestato successivamente alla proiezione ad alcune domande fatte dalla stampa intervenuta qui al Noir, parlandoci un po’ di come è stato scrivere questo film sui sottomarini, per poi vederlo realizzato tra sfide artistiche e quant’altro.

Anzitutto l’ovvio quesito: perché un film sui sottomarini, e quali le ispirazioni? Il soggetto è stata un’idea di Kevin Macdonald, che ha avvicinato Kelly dicendosi interessato ad un progetto di questo tipo. Di conseguenza andrebbe girato al regista, sebbene Kelly azzarda l’ipotesi che, al di là dell’interesse specifico di cui solo Macdonald può dar ragione, esiste senz’altro una motivazione pratica: di film a tema ce ne sono davvero pochi. Quanto alle ispirazioni, il discorso dello sceneggiatore è stato piuttosto ampio.

Come scrivevamo nell’ultimo aggiornamento al nostro diario, prima della proiezione Kelly manifestò questo suo interesse a dare vita a un film (testuale) «sporco e cattivo», di quelli che si facevano a cavallo tra i ’70 e gli ’80, poi gradualmente scomparsi. Ed è proprio questa la sfida che lui in primis ha voluto lanciare, dato che, avverte Kelly «da un certo punto in avanti si è imposta una separazione netta tra film d’azione e film intelligenti. Come se i primi non potessero essere intelligenti e viceversa». Definizioni generiche, è chiaro, ma che nell’ambito della conversazione danno una dimensione piuttosto sensata di dove sia andato a parare il discorso.

Nella recensione, però, vi spiegheremo che Black Sea è certamente un film che prende le distanze da certi progetti, per modo di dire, un po’ alla buona. O forse sarebbe meglio scrivere, di nicchia, per cultori del genere. Tuttavia l’argomento è complesso, perché si tratta di un mix di elementi in cui quelli relativi agli action ci entrano sì, senza tuttavia essere posti in primo piano. D’altro canto, ammette Kelly, «i generi sono qualcosa essenzialmente qualcosa di artificiale. Mentre io volevo fare un film realistico». Anche questa va spiegata.

Si tende sempre ad equivocare, e negli ambiti più svariati, il termine «realistico», quasi che fosse una gabbia e non un’impronta, per quanto specifica. Eppure è lo stesso Kelly a dire che «la verità è importante ma non quanto una buona storia»; questo per acquietare gli animi di chi ha cercato appigli di cronaca o cose simili al progetto. Niente di tutto ciò. Realistico è per esempio l’interno del sottomarino, il senso di oppressione che si avverte facendo esperienza di un ambiente così stretto, ovattato, come i vari locali di questo bestione che va sott’acqua. La verosimiglianza ha avuto infatti un’importanza non da poco nel descrivere questa storia, il che passa dall’ambientazione ma anche da componenti che devono essere appena percepibili, come la familiarità di ciascun membro dell’equipaggio a quel mondo lì.

Si e poi discusso sul finale: è sempre stato questo oppure no? Risposta secca: «c’erano un sacco di finali, ma alla fine quello scelto mi sembra il più appropriato». A tal riguardo, per ovvi motivi, non vi diciamo nient’altro, visto che lo sviluppo della conversazione ha condotto nel merito di una questione che non c’interessa qui sollevare.

Quanto al perché di Jude Law, l’attore inglese è subentrato in un secondo momento, nel senso che il personaggio di Robinson non è stato scritto tenendo a mente lui. Kelly però ci tiene a precisare quanto Law abbia preso sul serio la parte, trascorrendo circa cinque giorni in un sottomarino e lavorando parecchio sulla sua intonazione di voce, di ceppo vagamente slavo ma non russo. E poi, con altrettanta sincerità, «serviva un nome di richiamo». Complimentandosi peraltro con l’attore per non aver mai prevaricato sulla scena, così come richiesto in sceneggiatura, perché sebbene Robinson sia grossomodo il leader del gruppo, Kelly non lo ha mai visto come un vero e proprio capo.

Interessante anche il passaggio in cui si è parlato di limiti o limitazioni. Economiche, certo, ma anzitutto tecniche, aspetti che non in ogni caso vanno a braccetto. Kelly ammette di aver dovuto fare parecchia attenzione in fase di scrittura, quando la fantasia, l’estro e l’intuizione ha come solo limite la carta, vera o digitale che sia, mentre poi all’atto pratico esistono procedure e situazioni che cospirano contro tale libertà (immaginaria, per l’appunto). Ebbene, il ricorso alla computer grafica è stato alquanto ridotto, sebbene vi sia eccome. In generale pare che i produttori siano stati molto disponibili, e quasi mai Kelly si è trovato a riscrivere un passaggio qualsiasi per via di imposizioni esterne, dirette o meno. E ciò al netto di un film che lui stesso definisce «visually challenging», visivamente impegnativo. Gli spazi hanno infatti informato pressoché l’intero stile di ripresa, che è però uno degli aspetti pregnanti del film, il quale si sforza di ricreare quell’atmosfera palesemente claustrofobica.

Detto ciò, non resta che rimandarvi alla nostra imminente recensione del film.