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Blackhat: recensione in anteprima del film di Michael Mann

Il romanticismo di Michael Mann incontra l’attualità. La nostalgia è di casa in Blackhat, ultimo esperimento totalmente in linea con l’opera manniana. E forse pure qualcosa di più

pubblicato 5 Marzo 2015 aggiornato 30 Luglio 2020 17:39

Numeri. Date, orari, conti bancari, quotazioni, identificativi, indirizzi IP. Per Michael Mann questo è il mondo di inizio XXI secolo. Ma siamo sicuri si tratti di una personale suggestione? Il 9 marzo 2015 in territorio cinese scoppia un reattore nucleare, o giù di lì. 7 sono i minuti che il regista impiega all’incirca per mettere in campo il primo dialogo. Attraverso il numero indicante la temperatura di detto reattore la macchina da presa si insinua materialmente in quel flusso intangibile di dati che viaggiano a velocità incredibili mediante canali impercettibili: così Mann ricostruisce la scena realisticamente più trasgressiva di tutto il suo cinema (The Keep a parte). E si dà il caso che questo sia anche l’inizio de suo ultimo film, Blackhat.

Uno o più hacker sono gli autori dell’esplosione di cui sopra; eppure non vi è alcuna rivendicazione, alcuna richiesta. Nulla. Per quanto ne sappiano sia l’intelligence cinese che quella americana, si è trattato di un gesto totalmente immotivato compiuto da uno che sa smanettare come si deve con codici et similia. Il contesto richiede qualcuno che il gioco lo conosca e che sia allo stesso livello di queste entità ancora anonime. Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth), a dispetto di un passato da semplice falsario di carte di credito, è la persona giusta: studente al MIT, è al tempo stesso colui che ha progettato il codice che ha permesso agli anonimi di far saltare tutto in aria.

Sul tentativo di scoprire chi ha in mano stavolta le chiavi del regno, Hathaway si gioca la propria sorte sul lungo termine. Da non sottovalutare il concetto di gioco in Blackhat, che anzi fa implicitamente leva proprio su quanto segue: non si tratta solo di denaro, ricchezza e potere; per un hacker è anzitutto il misurarsi contro muri a prima vista invalicabili. In altre parole, accettare una sfida e superarla, costi quel che costi; il che rappresenta una descrizione, per quanto parziale, di quanto implica l’atto del giocare. Cosa avviene però se il gioco in questione ha delle ripercussioni notevoli sul contesto entro il quale ci muoviamo, alle volte addirittura devastanti?

È in fondo la provocazione con la quale Mann ci stuzzica per l’intera durata del film, che difatti si apre su una dimensione invisibile, per poi risolversi in un’esplosione che è l’esatto opposto, ossia tangibilissima. Non serve chissà cosa, insomma, per spiegarci tutto ciò; per lo meno nel senso che all’incirca chiunque è in grado di cogliere lo scopo delle prime battute, di cui il resto del film è il naturale svolgimento. Il regista di Collateral ritorna (in realtà da allora non l’ha mai abbandonato) al caro digitale, scelta privilegiata per ragioni nient’affatto stilistiche. Certo, potrebbe benissimo essere uno stile ben preciso a dettare il mescolamento di così tanti formati, o se non altro di tipologie di visione, come effettivamente succede anche in Blackhat.

Non è raro, nella stessa scena, passare con disinvoltura da un’immagine sottoesposta ad una sovraesposta (come in Malesia), separate da uno stacco appena. Così come, sempre a distanza di pochissimi frame, è possibile avvertire che l’intensità dei colori non è la stessa; stesso dicasi per la fattura dell’immagine, più o meno sgranata nonostante nel tempo del film siano trascorsi appena pochi secondi. Prima che Godard ce lo spiegasse con abbagliante violenza tramite il suo Adieu au Langage 3D, quasi nessuno (eccetto Malick forse, e per l’appunto Mann) ci aveva arpionato per la nuca e costretto ad osservare ciò che sta avvenendo. Ecco perché in Mann la scelta del digitale, e di questo utilizzo specifico, non si spiega semplicisticamente con logiche di gusto.

Il suo è un discorso, di gran lunga più umile rispetto al cineasta francese, che trascende il cinema rivolgendosi anche al modo in cui ci stiamo abituando a consumare immagini. Non dico che questo sia lo scopo principale, forse nemmeno il secondario, ma una tensione simile nel cinema di Mann la si riscontra in modo sinceramente palese. Il suo “stile”, in Blackhat più che mai, consiste esattamente nel rifiuto di alcuno stile. Come come? Parliamo dello stesso Mann che ha praticamente modificato l’aspetto urbanistico di Miami ridipingendo di colori pastello interi edifici un tempo grigi e smorti? Sì, è proprio quel Mann. Dagli anni ’80 ad oggi ne è passata di acqua sotto i ponti, e con Blackhat il regista realizza di nuovo l’obiettivo che si pone da tempo e che più volte ha esplicitamente dichiarato, ovvero interessarsi a come i suoi film ci fanno sentire, non semplicemente a come sembrano. Ancora una volta una presa di distanza da ogni astrattismo di sorta, poiché questo è il cosiddetto look, che è l’esatto contrario dell’altrettanto anglofono mood.

I film di Mann sono i più moody di tutti, quelli che li si potrebbe vedere anche senza comprenderne una parola ma che comunque lascerebbero qualcosa. Anzi, oso dire che in certi casi non seguire tutto per filo e per segno gioverebbe pure. «Orrore!», lo so. Specie per chi, come per Michael, il dialogo credibile, incalzante, è parte integrante del lavoro, del personaggio, del suo atteggiamento, del suo passato. Ma come per l’azione nell’accezione più ampia del genere cinematografico, anche le parole in Blackhat vengono centellinate. D’altra parte la storia orbita attorno ad un mondo in cui a farla da padrone sono numeri, e dove ci sono lettere si tratta per lo più dei già menzionati codici.

Alla luce di quanto appena evidenziato, affidarsi agli attori giusti era di vitale importanza. Ecco, qui forse non tutto va per il verso giusto: discreto Hemsworth, ottima Davis, bene gli altri comprimari eccetto quelli più in vista, ossia i fratelli Chen. Lui è per lo più anonimo, sebbene resti accettabile, mentre la sorella ad oggi ci sembra una delle scelte meno azzeccate di sempre in un film di Mann. Nulla a che vedere con una presunta barriera linguistica, dato che l’inglese di Gong Li (giusto per citare un’altra attrice cinese con cui Mann ha lavorato in passato) era ben più claudicante, eppure il peso specifico era tutt’altro. Probabilmente si sarà trattato di inesperienza, che a certi livelli, possiamo giusto immaginare, facile non sarà; sta di fatto che la performance di Tang Wei ci pare tutt’altro che all’altezza del ruolo.

Allargando nuovamente il discorso, il lavoro di Mann consiste in una destrutturazione della realtà che si pone al di là di qualunque forma di realismo. Per usare la centrata considerazione della puntuale Stephanie Zacharek: «in Blackhat vedere non è credere, bensì è soltanto il processo che porta a credere». La già citata fotografia è oramai da almeno un decennio cifra importante nell’ambito di tale processo; non si tratta di estetica ma di una scelta ragionata che agisce attraverso canali che non vediamo ma al tempo stesso hanno un impatto devastante sulla nostra percezione. A tal riguardo Blackhat è forse il film che più di tutti ci parla non soltanto di come il mondo odierno funzioni, ma ci informa pure sul modus operandi manniano.

Il regista di Chicago è a sua volta un hat (hacker) che ha scoperto una falla, o che ad ogni modo è in grado di scoprirne sistematicamente. Attraverso codici che ai più dicono assolutamente nulla, il nostro opera con una dimestichezza che in pochi possiedono. Mann è l’Hathaway del cinema americano/hollywoodiano. Forse l’unico; certamente il più dotato ancora in circolazione. Non è semplicemente in grado di decifrare codici ma, come Hathaway, è altresì capace di scriverne in proprio. Ed alla fine, sempre come Hathaway, non disdegna forme “rudimentali” per raggiungere lo scopo – per il protagonista del film si tratta di fabbricare strumenti di difesa con attrezzi e “cose” di tutti i giorni, per Mann l’equivalente in espedienti narrativi magari. Anche per questo pure il più irritato tra i delusi, se lucido, non potrà fare a meno di ammettere quel filo conduttore che lega l’intera opera di Mann, alla quale quest’ultima fatica, piaccia o meno, appartiene di diritto.

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L’azione c’è, sebbene in forma diversa, ma c’è. È chiaro però che per scorgerla non ci si potrà fermare alle sparatorie o agli inseguimenti, perché Heat sta da un’altra parte. Mann è un romantico, tragico quanto si vuole, ma che nei suoi lavori è abile nell’infondere una nostalgia strana. Hathaway non ha più bisogno, come Neil (Robert De Niro), Max (Jamie Foxx) o Sonny (Colin Farrell), di guardare una sconfinata distesa d’acqua e sognare, perché la sua realtà non è quella di chi si industria per acciuffare qualcosa: quel qualcosa lo sta già vivendo, il che è paradossale.

Sì perché quello che a priori dovrebbe essere il più alienato dei suoi personaggi, legato com’è ad un mondo puramente virtuale, è invece il più pratico (sebbene “pratici” lo siano tutti i personaggi principali delle storie di Mann), quello che meglio di tutti riesce a relazionarsi col qui e ora. «L’unica cosa che conta è tenere svegli sia il corpo che la mente», risponde l’aitante Nick a Lien, la quale un istante prima gli ricorda di non essere più dietro le sbarre. Certo che non lo è, ed Hathaway lo sa meglio di chiunque altro: è proprio per questo che può concentrarsi su come evitare di tornarci.

Mann va insomma oltre il realismo, che non è neo né tantomeno ultra. Il suo è un lavorare sulla realtà e su come questa possa essere trasposta su uno schermo riducendo al minimo il connaturato grado di noia e scontrosità che porta in dote; per riuscirci, come già in parte ravvisato, deve scomporla, sistemarla in pacchetti, ridistribuirla e metterla nuovamente insieme mediante quell’operazione di non facile compimento che porta al film finito. I più perspicaci avranno già capito: esatto, grossomodo come avviene con l’ingente mole di dati invisibili che vengono rimbalzati da un server all’altro.

Le “concessioni”, le licenze (fuorviante parlare di veri e propri compromessi) sono tutte misure che Mann sa di dover fronteggiare, pragmatico com’è lui per primo; perciò le sue strutture chiuse, certe linee di dialogo più scontate, quel passaggio apparentemente frettoloso. La situazione lo richiede ed ancora una volta Mann si dimostra all’altezza, anche senza sfornare alcun capolavoro; gli basta un buon film, che però è il suo e di nessun altro. Crediate che ci si stia accontentando? Al contrario. Non ci accontentiamo affatto! Ecco perché.

Voto di Antonio: 8
Voto di Federico: 6.5

Blackhat (USA, 2015) di Michael Mann. Con Chris Hemsworth, Wei Tang, Viola Davis, Ritchie Coster, Holt McCallany, Yorick van Wageningen, Lee-Hom Wang, Manny Montana, William Mapother, Archie Kao, Tracee Chimo, Jason Butler Harner, Spencer Garrett, Brandon Molale, Abhi Sinha, Michael Flores, Lyn Quinn, Michael Bentt e Sara Finley. Nelle nostre sale da giovedì 12 marzo.