Boris sans Béatrice: recensione in anteprima del film in Concorso a Berlino 2016
Amore e tradimento in questa commedia nera di stampo esistenzialista. Apprezzabile l’intento di Denis Côté, che con Boris sans Béatrice non riesce del tutto a togliere la patina di ermetismo connaturata al progetto
Boris Malinovski è un uomo di successo, sposato con una donna, Béatrice, non soltanto avvenente ma che ricopre anche un ruolo importante nell’organico dell’attuale governo. Un giorno Béatrice comincia a dare segni di cedimento, finché non smette di parlare. Più o meno. Boris è comprensibilmente turbato, ma malgrado la sincerità della sua preoccupazione, continua a vivere come se niente fosse. Fino a quando non riceve una lettera da uno sconosciuto, che lo ritiene diretto responsabile della pessima condizione in cui versa la moglie.
Boris sans Béatrice è un film anomalo, che non si comporta come tale. Entro una certa qual misura questo fatto interessa, se non altro intriga, perché si vuole capire dove voglia andare a parare. Poco a poco ci si rende però conto che il tenore è riconducibile al teatro, ai suoi modi di esporre una storia, alle misure che si adottano su un palcoscenico. Un debito tutt’altro che taciuto, dato che si sprecano le citazioni dalla mitologia Greca o dalla Tragedia greca, tra Oreste, Elettra ed un Tantalo. La svolta, per esempio, avviene mediante un artificio surreale, che è il già citato incontro con questo sconosciuto il quale sa troppo.
Operazione vagamente intellettuale, laddove non intellettualoide, che tenta di proporre una storia d’amore attraverso canali non immediati. Ambizione notevole, a suo modo straniante, sebbene mi pare fosse proprio quello l’effetto che s’intendeva generare. Ma è un approccio rischioso, che tiene a distanza, rispettabile poiché prova a filtrare attraverso altro che non la pancia, salvo però arrivare a destinazione un po’ malconcio. D’altra parte, se non ci siamo già dentro con tutte le scarpe, ci muoviamo comunque in territorio di metafore, che davanti alla macchina da presa è sempre un rischio.
Certo, il tutto viene stemperato da dialoghi molto semplici, finanche spassosi in alcuni punti, per un film tutt’altro che verboso ma che, anzi, fa ottima economia in tal senso. Resta però uno sviluppo farraginoso, in cui personaggi servono ad una storia e non viceversa, senza contare che il messaggio c’è ed è anch’esso prioritario. È un tipo di cinema destinato a contrariare, solleticando alcuni per lasciare indifferenti, se non addirittura irritati, altri. È implicito in un progetto così libero, che è probabilmente l’aspetto che più ci piace e che, come sempre, difendiamo a spada tratta.
Infatti lasciamo ad altri eventuali “punizioni” (sic); qui evidenziamo solo certe lacune, su tutti il macchinoso dipanarsi, perché pur dando cibo per la mente, risulta poco incisivo nel discorso che affronta riguardo all’isolamento, il relazionarsi con gli altri, l’amore, gli affetti. Boris viene costretto, suo malgrado, a cambiare vita, qualcuno direbbe «a diventare buono». In questo Côté si mostra più equilibrato, evitando di giungere a conclusioni troppo nette; cambiare è possibile ma ci vuole tempo, e soprattutto un trauma scatenante.
Insomma, Boris senza Béatrice è semplicemente la peggiore copia possibile di sé stesso. C’è anche la famosa mela di Platone? Sì, c’è anche. L’operazione ci pare infatti quella di rendere un’opera, che sotto sotto è colta, accessibile. Il che ci può anche stare; ciò che bisogna capire è se ci riesca. Il patto implicito è perciò che lo spettatore accetti di ragionare secondo schemi arcaici, che non vuol dire banalmente “vecchi”, anzi. Solo che l’ambito è delicato, e questo particolare esperimento di commedia nera sembra non reggere il peso della sua ambizione.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”5″ layout=”left”]
Boris sans Béatrice (Canada, 2016) di Denis Côté. Con James Handman, Simone-Élise Girard, Denis Lavant, Isolda Dychauk e Dounia Sichov.