Boyhood: recensione in anteprima del film di Richard Linklater
Richard Linklater firma con Boyhood il suo capolavoro. 12 anni di lavorazione per quello che è il coming-of-age definitivo. In teoria dovrebbe essere il titolo che spazza via tutto e tutti agli Oscar: ma è troppo sottile, troppo sensibile e troppo poco di pancia per piacere all’Academy. Ma non ne ha bisogno: è già nella Storia del cinema.
Il primo colpo al cuore arriva molto presto in Boyhood. Il piccolo Mason si prepara a traslocare assieme alla madre e alla sorella Samantha dalla loro casetta di un piccolo paese del Texas ad Houston. È la casa dove hanno sempre vissuto: Mason ha 6 anni, Samantha ne ha 8. Linklater ce lo sottolinea nel modo più limpido e commovente possibile: mentre ridipingono le pareti di casa prima di andarsene via, Mason cancella le righe con le quali la madre ha marcato sul muro la sua crescita in altezza nel tempo.
Richard Linklater firma il coming-of-age definitivo, quello con cui tutti i piccoli film dello stesso sottogenere dovranno confrontarsi. E sarebbe bello farne un double bill assieme a La vita di Adele: perché lì dove il film di Kechiche era carnale, attaccato ai corpi e pieno di energia, Boyhood si rifa ovviamente alla tradizione dei coming-of-age americani alla David Gordon Green. Quasi i due opposti della stessa medaglia.
Ma il regista scavalca e supera a destra il genere, optando per un approccio semplice, ben poco rarefatto e sognante. Una scelta di “classicità” precisa dovuta al fatto di voler restare coi piedi per terra, sia a livello produttivo che narrativo. Non potrebbe essere altrimenti, vista la rischiosa storia sperimentale che Boyhood ha alle spalle e visti anche tutti i rischi e pericoli che avrebbe potuto incontrare lungo il suo cammino.
12 anni di lavoro, tra riprese (la troupe si ritrovava una volta all’anno) e post-produzione, per raccontare la giovinezza di un bambino che poi diventa adulto. Solo raccontata così la pellicola dovrebbe essere quella che potenzialmente spazza via tutto e tutti ai prossimi Oscar, se questi contassero davvero qualcosa e sapessero registrare il nuovo che c’è attorno (e quindi pure rinnovarsi).
Ritorniamo però alla scena descritta prima. È un momento in cui Linklater svela senza troppi problemi e in modo candido la sua intenzione teorica, che è quella di girare un’opera in cui la componente temporale è davanti a tutto, ed è una scena che con pochissimo riesce a riempire gli occhi di lacrime. Ed è creata con sensibilità sottilissima, come tutti gli altri momenti in cui Boyhood mostra la sua anima più toccante.
Boyhood non è però un film di “grandi emozioni” di pancia, come quelli che piacciono ai membri dell’Academy. Non può esserlo per forza di cose: ci fosse una scena dove il regista calca la mano sull’emotività, dove sbava con la colonna sonora o dove fa troppi virtuosismi col montaggio avrebbe fallito nel suo intento, e la coerenza interna – in questo caso più che fondamentale! – verrebbe spezzata all’istante.
Per questo Boyhood non è il film che potrebbe per forza convincere l’Academy: paradossalmente troppo poco poetico e comunque non urlato (anche se di urla e litigi ce ne sono, ma capirete vedendo il film). Linklater non narra: registra, oppure anche meglio fotografa. La mancanza di plot a cui qualcuno si è attaccato per evidenziare la poca emotività in circa 3 ore di film è un’idea sciocca, perché di cose innanzitutto ne accadono tantissime. Non c’è però la struttura che ci si aspetta da un film canonico e da un ordinario coming-of-age.
Ci sono le tappe della vita, ci sono momenti cruciali dell’esistenza di Mason raccontati con ellissi che evidenziano la crescita fisica degli attori, e c’è la banale e in fondo splendida quotidianità di ogni giorno. Quotidianità che però a tratti può essere terribile: la sofferenza di due genitori che non si amano più, l’alcolismo dei nuovi compagni della madre che si ripercuote sulla famiglia con violenza, l’ultimo sguardo all’amichetto con cui si è sempre vissuto prima di traslocare (un attimo velocissimo che però personalmente mi ha devastato).
Si può pensare che in fondo Linklater ha già fatto un’operazione simile, soltanto non in un unico film. Ma la trilogia Before, pur nella sua bellissima premessa di fondo, non registra ad esempio la Storia in fieri come fa Boyhood. Qui la Storia scorre davanti ai nostri occhi in diretta come l’abbiamo vissuta: da Bush a Obama, passando per tutto l’armamentario Apple. Sarà pure una bella marchetta, certo… ma quanta tecnologia ci è passata tra le mani in poco più di un decennio, e quanto ha influito sulle nostre vite.
Essendo un coming-of-age ambientato negli States, Boyhood registra quindi anche lo stato di una nazione intera. Non solo a livello di campagne politiche, come appunto quella di Obama, di cui il padre di Mason è un fervente sostenitore. C’è ad esempio un gran bel pezzo di americana all’interno della pellicola: tutta la scena in cui Mason, per il suo compleanno, va assieme alla sorella, al padre e alla sua nuova compagna a casa degli anziani genitori di lei. I quali gli regalano… una Bibbia personalizzata col suo nome e un fucile che è passato di generazione in generazione.
Se l’operazione ha alla base un’intuizione favolosa, l’esecuzione è altrettanto sopraffina. Bisogna solo togliersi il cappello di fronte ai due direttori della fotografia, Lee Daniel e Shane F. Kelly, per aver regalato alle immagini un look costante e omogeneo in più di 10 anni di riprese. E bisogna togliersi di nuovo il cappello di fronte a Sandra Adair, che col suo montaggio ha fatto un lavoro pazzesco, plasmando il materiale audiovisivo facendo in modo che in 3 ore non si sfiori neanche un attimo di stanca.
Poi infine ci sono loro, gli attori che crescono col film. Sarà stato anche fortunato Linklater a trovare uno come Ellar Coltrane, bravo e fedele all’operazione, ma ha anche avuto intuito. E tra un Ethan Hawke in formissima e una Lorelei Linklater (figlia del regista) che è una vera forza, spicca la sorpresa attoriale assoluta di Boyhood: Patricia Arquette, straordinaria come non l’abbiamo mai vista in quello che è paradossalmente il ruolo più bello e forse importante del film.
Nel suo discorso finale c’è tutto il payoff emotivo che i membri dell’Academy non potranno riconoscere, perché non hanno la sensibilità per riconoscere la potenza devastante di un dialogo così normale, e che fa seriamente sgorgare le lacrime. È la scena più bella del film, e ribadisce ancora una volta il suo discorso sul tempo. Richard Linklater non è un regista furbo che ha preparato Boyhood a tavolino, come qualcuno potrebbe pensare, ma piuttosto un regista gentile. E questo è il suo capolavoro.
Voto di Gabriele: 10
Voto di Federico: 10
Voto di Antonio: 9
Boyhood (USA 2014, 165′ drammatico) di Richard Linklater; con Ellar Coltrane, Patricia Arquette, Ethan Hawke, Lorelei Linklater, Tamara Jolaine, Nick Krause. Qui il trailer italiano. Uscita in sala il 23 ottobre 2014.