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Café Society: recensione in anteprima del film di Woody Allen

Un Woody Allen più ambizioso, che con Café Society, manco a dirlo, reitera temi a lui cari senza stavolta rinunciare alla satira. Non caustica bensì disillusa rispetto a quel periodo che mandò irrimediabilmente in soffitta i ruggenti anni ’20

pubblicato 27 Settembre 2016 aggiornato 30 Luglio 2020 05:27

Gli anni sono i ’30, la Guerra è in corso ma dall’altra parte dell’Oceano hanno altro a cui pensare. Specialmente a Los Angeles, dove l’industria dorata sta costruendo il suo mito con un ritmo a dire il vero forsennato: sembra che da quelle parti non si faccia altro che parlare di cinema, film, attori e via discorrendo. Tutti parlano di tutti, sanno tutto, ed aleggia una frivolezza che stona con il periodo storico ma non importa perché, che diamine… è Hollywood! Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un ebreo del Bronx che vuole evadere dalla sua New York per cambiare vita; si reca allora presso l’altra sponda del Paese, dove lavora suo zio Phil (Steve Carrell), un impresario estremamente impegnato, il cui lavoro consiste per lo più nel prendere appuntamenti o inventarsi telefonate con attrici importanti. Qui, si convince Bobby, «troverò il mio posto». Ma come si dice? A volte bisogna allontanarsi da casa per capire che è sempre stato questo il tuo posto.

Nei film di Allen si avverte sempre un certo distacco, una palese difficoltà a far sì che i suoi personaggi si leghino davvero. Basti guardare alla scena di sesso non consumata di Bobby con una prostituta, un siparietto che funziona da refrain dell’intero cinema alleniano, il cui pensiero alla base è affetto da questa incompiutezza esistenziale. Anche Café Society, anzi quest’ultimo lavoro più di altri, specie i più recenti, è letteralmente strutturato sull’incompiuto, su storie e personaggi a cui è preclusa l’ultima parola. Perché? Beh, a quanto pare perché non vivono a pieno le “cose della vita”, siano esse relazioni amorose (e per lo più sono sempre queste con Allen), esperienze lavorative, conoscenze e via discorrendo. Il tutto però viene ancora una volta filtrato con quel finto smarrimento che è un po’ il lasciarsi la porta aperta, il non voler cedere alla parola fine; la tesi del regista è infatti piuttosto chiara, ma quest’ultimo se ne guarda bene dal reiterarla con pedanteria o da uomo con troppi anni sulle spalle, preferendo ragionare attraverso le vicende che di volta in volta racconta (nel vero senso della parola stavolta, visto che la voce fuori campo è proprio quella di Allen).

Ed infatti Café Society ci parla di una pressoché perfetta storia d’amore andata in fumo, per scelta deliberata e non per pura casualità. La vita è un brutto affare, e se non è brutto quantomeno è complesso. Certo. Però sono le persone a renderla davvero insostenibile, con le loro scelte, per lo più sbagliate, grottesche. Allen non punta il dito verso nessuno, anzi, patteggia per questi inadeguati pasticcioni che non fanno altro che commettere stupidaggini. Lui è lì accanto a loro, ride con loro ma mai di loro, e per stabilire tale empatia si getta anch’egli nella mischia, pure quando non c’è. Volontà che in Eisenberg trova il complice adatto, colui che consente al regista di tornare indietro nel tempo di un tot indefinito di anni e discutere sempre delle stesse cose sebbene in maniera di volta in volta diversa. Poco diversa ma diversa.

Il gracile Bobby, così come tutti i comprimari, sono come “staccati” dallo sfondo, di cui però risente. Ad LA s’invaghisce della bellezza pulita e ordinaria di Vonnie (Kristen Stewart), una liaison a tre di cui non vi forniamo alcun punto di riferimento così da lasciare a voi il piacere della scoperta. Ma dietro l’angolo vi è sempre la solita, ineludibile difficoltà: all’apice della stabilità, quando si crede di aver ottenuto, se non tutto ciò che si cerca, almeno le cose più importanti, ecco che la realtà prende il sopravvento facendosi beffa di tutto e tutti. La storia di Bobby e Vonnie è destinata ad andare male? Sul serio? E per colpa di chi? Perché di qualcuno la colpa dev’essere, quantunque il tutto appaia così insensato. Anche perché resta quella domanda che punge e irrita con la costanza di un insetto duro a morire: e se fosse davvero lei quella giusta? Non solo La donna giusta. Ma proprio la persona giusta, quella che colma il vuoto, che anche se tutto va a scatafascio basta lei come porto sicuro, che risolve le cose semplicemente stando lì.

Allen, lo si sa, ha la capacità innata di stemperare qualsivoglia romanticismo al quale si sforza di credere malgrado alla fine la sua indole essenzialmente cinica e pessimista abbia la meglio. Stavolta però le conclusioni appaiono meno forzate, più realistiche per così dire: in fin dei conti non si può nemmeno dire che finisca male tout court. Finisce come finisce, perché i valori in campo quelli sono e non c’era d’aspettarsi altro. È un Allen più saggio, magari pure più ambizioso, che abbandona la favola per sondare un terreno più congeniale poiché più vicino. Café Society ne ha del “vecchio” Allen strizzato per bene, perciò più asciutto, più diretto. Non disdegna infatti di sfoderare le sue uscite pungenti, così come non sono marginali certi passaggi in cui si parla non semplicemente di religione ma di ebraismo («se solo l’ebraismo credesse nell’aldilà… avrebbe molti più clienti»), col disincanto e quell’amara ironia tipici di certi autori ebrei, come i Coen su tutti.

Café Society già dal titolo si risolve anche nella satira, muovendo sì dal mondo del cinema per poi però approntare un discorso più ampio. Forse si tratta di una staffilata a quel periodo che si prese tutto, imponendosi con violenza sull’epoca che più di tutte Allen ama o ha amato, ossia quella fugace ma pittoresca parentesi tra la Belle Époque e l’inizio degli anni ’30: «a chi non piace il Jazz?!», esclama uno dei personaggi, che è un po’ un atto d’accusa, o quantomeno una formale lamentela verso chi, volontariamente o meno, ha fatto sì che buona parte delle cose belle di quegli spensierati anni ’20 venissero archiviate. In tal senso Café Society potrebbe essere speculare a Midnight in Paris, non consequenziale: lì la favola, il ritratto impossibile ma che è pur sempre piacevole finché dura; qui le ragioni per cui l’anelito di quella storia fosse per lo più infondato.

Non tutto convince o per lo meno appaga, ed anche quando Woody Allen va di pancia con certe invettive su potere, istituzioni e finti intellettuali, lo fa senza crederci più di tanto. Eppure, in mezzo a tanta consapevole rassegnazione, trova comunque il modo di filtrare quella bellezza che passa attraverso la nostalgica fotografia di Vittorio Storaro, che ha convinto il regista ad abbandonare per la prima volta la pellicola a vantaggio del digitale. E forse anche di questo Allen si fa beffa, quando al suo alter-ego Bobby/Eisenberg fa esclamare qualcosa del tipo: «questa luce che disegna i grattacieli» nel poetico contesto di una pressoché perfetta Central Park. Parole di Bobby, sarcasmo di Woody Allen.

[rating title=”Voto di Antonio” value=”7″ layout=”left”]

Café Society (USA, 2016) di Woody Allen. Con Jeannie Berlin, Steve Carell, Jesse Eisenberg, Blake Lively, Parker Posey, Kristen Stewart, Corey Stoll, Ken Stott, Anna Camp, Stephen Kunken, Sari Lennick e Paul Schneider. Nelle nostre sale da giovedì 29 settembre.

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