Cannes 2017: Aus dem Nichts (In the Fade) – recensione del film di Fatih Akin
Festival di Cannes 2017: dopo il genocidio armeno, Fatih Akin evoca il terrorismo cosiddetto xenofobo. Aus dem Nichts regge nel corso del primo atto, per poi naufragrare nel secondo e terzo, con un finale che farà discutere
Katja (Diane Kruger) e Nuri (Numan Acar) convolano a nozze tra le sbarre; una bella sequenza, che apre bene un film per il resto di gran lunga inferiore rispetto a quanto sia lecito attendersi da queste prime battute. Lui, turco, è un ex-spacciatore che, scontata la propria pena in galera, si occupa di consulenza legale per la comunità alla quale lui stesso appartiene. Quella con Katja è una storia d’amore con tutti i crismi, che porta alla nascita del piccolo Rocco. Un giorno mamma e figlio vanno a trovare il padre al suo ufficio, dove il ragazzino viene lasciato affinché Katja possa sbrigare alcune commissioni. Al suo ritorno la donna scopre che è accaduto qualcosa; troppa gente, polizia, sirene. Un ordigno è esploso vicino all’ufficio dove si trovavano marito e figlio, scomparsi entrambi. Gli esecutori? Un gruppo di neo-nazisti.
Fatih Akin rivolge la propria attenzione su una vicenda che per forza di cose sente tantissimo, lui stesso di origini turche, e che riguarda un tipo di razzismo che, a suo dire, non fa notizia, ossia quello subito da turchi e curdi, presenti in gran numero nella Germania di oggi. Peccato che il tutto ci venga raccontato come se si trattasse di uno sceneggiato televisivo qualunque, con quel suo desiderio ahinoi così maldestro di scuotere, partendo da una tesi molto forte anziché arrivarci per gradi ed in maniera plausibile. Come accennato, tale limite si deve principalmente al grado di coinvolgimento che Akin manifesta, quasi volesse vendicarsi in prima persona per questi atti orrendi, realmente avvenuti malgrado di per sé il soggetto sia di finzione.
Se ne ha maggiore contezza alla luce dello squilibrio tra il primo atto e gli altri due; il primo, per l’appunto, bilanciato, in cui il regista indovina il taglio, costruendo bene un frangente in cui non si sanno ancora molte cose, tra tutte chi e perché. Forse che Nuri aveva un conto in sospeso con qualcuno? Oppure era tornato in un giro losco? Assistiamo a queste situazioni pesanti, in cui i genitori del marito pretendono di portare in Turchia le spoglie del figlio e del nipote, mentre la già devastata Katja scopre di dover schivare anche il fuoco amico. Proprio il contributo della Kruger qui si rivela fondamentale: la sua reazione è misurata, non tanto perché reagisca “bene” alla tragedia quanto perché si crede davvero che una persona possa affrontare in quel modo un evento così estremo. E ci sono scene, come quella appena menzionata, che effettivamente toccano, come quando la vedova si fa una striscia di coca per poi tornare nella stanza dove ci sono tutti gli altri e perdere sangue dal naso; oppure un’altra, a dire il vero più calcata, in cui la suocera, durante il funerale, incolpa Katja per quanto avvenuto.
Dopodiché si arriva al secondo atto e In the Fade registra un calo tangibile. Spostandosi dalle parti courtroom drama, con l’azione che si svolge interamente in un’aula di tribunale, dove questo deprecabile ma competente avvocato conduce la propria difesa con tutti i mezzi possibili, specie quelli più biasimevoli, laddove non semplicemente illeciti. Qui Akin vuole metterci a parte di certe assurde dinamiche inerenti alla giustizia tedesca, che non fatichiamo a credere veritiere, quantunque i problemi siano altri. Da qui in avanti il film pecca di un eccesso di didascalia che si fa fatica a digerire, specie in relazione all’epilogo, di cui tutto ciò che avviene prima quasi non è che pretestuosa appendice. Tale è la foga con cui Akin chiude il suo In the Fade, che tutto il film, in equilibrio già precario ben prima di arrivare a quel punto, crolla.
La lotta di questa donna, abbandonata, sola contro il mondo, rappresenta una traccia che vale la pena seguire ma che viene fagocitata da uno sviluppo approssimativo, costantemente e preventivamente proiettato verso quel liberatorio finale, discutibile anche per il tipo di messaggio che rischia di veicolare in un periodo delicato come quello che stiamo attraversando. Più compatto, certo, rispetto al suo penultimo lavoro, Il padre, presentato a Venezia nel 2014; lì l’epopea del genocidio armeno, altro tema tendenzialmente tabù, ma non per questo più riuscito. Va perciò riconosciuto ad Akin un certo coraggio nell’affrontare argomenti non proprio semplici, andando anche controcorrente, per quanto a questo giro possa essere controcorrente ricordare che anche certi europei sono in grado di commettere turpitudini come quelle che invece oggi sono altri a commettere nel Vecchio Continente.
Ma ciò che lascia perplessi è appunto questa assenza totale di sfumature, il tenore sentenzioso, arrabbiato a tal punto da non consentire di cogliere a priori ciò che già su carta non funziona in alcun modo. Diversamente si dovrebbe credere che il risultato conseguito sia in tutto e per tutto cercato, ed allora, se possibile, le perplessità sarebbero addirittura maggiori. «Di terrorismo si muore», pare in sostanza dirci Akin, non importano il colore e la causa. Affermazione condivisibile, al netto degli slogan, ma che ad ogni modo basta a sé stessa; per farne un film ci vuole tanto altro, quell’altro che in larga parte manca a In the Fade.
[rating title=”Voto di Antonio” value=”4″ layout=”left”]
In the Fade (Aus dem Nichts, Germania, 2017) di Fatih Akin. Con Diane Kruger, Numan Acar, Ulrich Tukur, Ulrich Brandhoff, Jessica McIntyre e Siir Eloglu. Concorso.